domenica 27 dicembre 2015

Miraggi

Ritratto d'uomo di Antonello da Messina, Cefalù



























Se sogni i miei sogni meticci e sbilenchi,
perenni germogli inadatti a fiorire,
tra mille visioni che vengono e vanno
per onde sporadiche ed errabonde,
nascondi la maschera della tua riluttanza
d’opachi cristalli e crepuscoli d’oro,
ché il senso è talora soltanto una piega,
la curva imprevista di una dissonanza.

Se sogni i miei sogni, riposa nel dubbio
che un nulla alla fine è ogni cosa perfetta che esiste
e il tempo uno specchio ubriaco e malfermo,
tremante lanterna che illumina a caso
l’incerto sentiero dun bimbo smarrito.
Nel dubbio riposa tra il dire e il tacere
se il dire oramai solo i riccioli pettina delle parole,
vuote vele e sbandate per fiato di fole.

Lontano dalla livida dismisura dell’alba
dei lieti presagi gravidi solo d’amari miraggi,
sosta in seno alla notte stellata d’inganni,
se sogni i miei sogni, e non scioglierne i nodi,
almeno per un fuggevole istante ancora,
le trame serbane e irrisolti i grovigli
nei riccioli candidi dell’illusione
di una delirante granita al limone.





* Hāfez di Shiraz (1310-1390), traduzione di Stefano Pellò e Gianroberto Scarcia
   in Ottanta canzoni, Torino, 2008, p. 19, v. 13
.



lunedì 23 novembre 2015

Increspature



Michele Rapisardi, Testa di Ofelia pazza, 1865 




























E lo sbandare tra ottusi e vani indugi,
e il vuoto a ogni gradino che discendi,
e i ciuffi di basilico ingialliti,
e l'allegria ormai sfatta dal vento
come rotto zampillo e randagio,
che via svanisce in cerca di un rifugio
o di una sitibonda increspatura,
segreto sotterfugio, radura di sfinite foglie
e di menzogne ormai d'attesa spoglie.


venerdì 20 novembre 2015

Disse Tarsi



Henri Matisse, La danse 1909















C'era un ruscello. C'era un ruscello che correva veloce. C'era un ruscello che correva veloce, pur increspandosi, talora. C'era un ruscello che correva veloce, pur increspandosi, talora, sui sassi affioranti. C'era un ruscello che correva veloce, pur increspandosi, talora, sui sassi affioranti che ne frenavano la lieve corsa. C'era un ruscello che correva veloce, pur increspandosi, talora, sui sassi affioranti che ne frenavano la lieve corsa, tra sponde di prato fiorito. C'era un ruscello che correva veloce, pur increspandosi, talora, sui sassi affioranti che ne frenavano la lieve corsa, tra sponde di prato fiorito, dove brucava un cervo. C'era un ruscello che correva veloce, pur increspandosi, talora, sui sassi affioranti che ne frenavano la lieve corsa, tra sponde di prato fiorito, dove brucava un cervo indolente e assetato. C'era un ruscello che correva veloce, pur increspandosi, talora, sui sassi affioranti che ne frenavano la lieve corsa, tra sponde di prato fiorito, dove brucava un cervo indolente e assetato; ma pur increspandosi talora, correva veloce il ruscello.





sabato 31 ottobre 2015

Il bello di Roma

Venere callipigia, Museo Archeologico Nazionale, Napoli


























Un giovin scrittore, già battezzato tra i pochissimi eredi del canone delle patrie lettere dal decano della critica italiana, confessa di aver imparato «a far vedere non solo quello che mi gratifica presso gli altri, come l'intelligenza e l'ironia, ma anche l'idiozia e la menzogna. Come Malaparte, Céline, De Sade. Di una scultura c'è sempre il dietro. Della statua di una dea c'è anche il culo. E spesso l'artista ha avuto cura di farlo venir bene, un po' sporgente».
Dei personali apprendimenti dell'illustre scrittore non cale ad alcuno, essendo del resto sottratti a valutazioni arbitrarie; solleciterebbe di contro pruriginose curiosità la questione ontologica, per altro indecisa, circa l'esistenza del culo della dea. Ci esime, nondimeno, da qualunque gravame di approfondimento anselmiano, la circostanza che l'affermazione non si riferisce già a eventuali dispute metafisiche sul deretano divino, quanto piuttosto alle umane rappresentazioni statuarie di esso culo. Tema, per dir così, di vasto e debordante interesse artistico, d'altronde, a tal segno che menarne vanto d'inusitata scoperta sfiderebbe la più stolta ovvietà, alla stregua di chi d'incanto, percorrendo via del Lavatore fino all'angolo di via di S. Vincenzo, innanzi allo splendido monumento che troneggia nell'antistante piazza Trevi, pretendesse d'avere scoperto la celeberrima fontana.
Non sarebbe, forse, appena più intrigante interrogarsi sulla perniciosa e mutilante ossessione del nostro tempo per codesta callipigia sporgenza? Dacché, con ogni evidenza, «c'è anche il culo», ma vivaddio, non c'è solo il culo, con rispetto parlando.


*Bello di Roma: Propr. il Colosseo, storpiato in Culiseo.
Valter Boggione - Giovanni Casalegno, Dizionario storico del lessico erotico italiano, Milano, 1996.

martedì 20 ottobre 2015

Senza titolo

Gustav Klimt - Ritratto di Sonja Knips, 1889

























per sempre giovani e felici
fragranti d'oscure malie,
irresistibili ed audaci
furtivi fiori e spensierati
complici agguati,
perdutamente amati,
sono i peccati



sabato 17 ottobre 2015

Recondite armonie. Esercizi

                         Il singolare nel plurale: amiamo, ami amo.
                                                              Anacleto Bendazzi


Nudo – Osvaldo Licini, 1925


















Facezie

Neologissimi
Palombaro: Piccione ingannatore
Ventaglio: Mortifera esalazione che si sprigiona dopo l'ingestione di spicchiati bulbi dell'Allium sativum
Alitosi: barbiere angelico
Slowacca: soprannome dell'ottava lettera dell'alfabeto che ne designa l'infingarda neghittosità

Tmesi
Del tacco a spillo: fa natica
Perorano per Orano? Per ora no.

Contrepèterie: La biga folle
  
Flambè
Monna Lisa del Giocondo
al marito furibondo
delirava in dormiveglia:
O mio leon ardo!


Anagrammi

Mi rado prono = Romano Prodi
Apologo: o grati inni = Giorgio Napolitano
Strema alligatore = Sergio Mattarella
Piagnolìo = Gino Paoli
Ferente anelar = Elena Ferrante
Unirà lira = Nuria Rial
Vali al di là = Alida Valli
Reggeva tonanti possibilità = Giovanni Battista Pergolesi
Ah tramai = Mata Hari
Osvaldo Licini
Vi dono scialli da un Sadico villino
Il caldo visino o Scaldi l'ovino? rispose @caro_viola
- Sappi che per quei due anagrammi Vincolai soldi


Malumori di versi

Attenti ai gorilla!
Il Gasparri e il buon Salvini
camminavano a braccetto,
quando un branco di babbuini
li sorprese in un vialetto;
la decenza ora c'impone
una drastica omissione,
ma fu forse quel dolore
che li avvolse nel livore?



mercoledì 7 ottobre 2015

Délire de lire. Esercizi


























Anagrammi
La caravaggesca Maddalena in estasi = Alma de' sensi andati
La schnitzleriana Traumnovelle:
Doppio sogno = S'odi oppongo, Dio pospongo,  O sogno doppi?
Traumnovelle = un vel mortale di @asbrilli
Il razzista con le felpe di cui mi sfugge il nome = molesta in vita

Il senso dei nomi
Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni ricca famiglia è invece disgraziata a modo suo:
La matriarca ereditiera: Ida Nari
Il marito: Lindo Lenza
L'amante infedele del marito dell'ereditiera: Luisa Peva
La cugina rivale dell'ereditiera: Manon Fasconti di @atrapurpurea
Le altre cugine: Lara Pino e Lena Lotto
I parenti poveri: Agazio Decan e Loretta Dinoia
La guardia del corpo: Vitalìano Darrè

O Toti o suerte
Vinciamo la noia
Con Toti Scialoja:
Scriviam filastrocche
Balzane e farlocche?

Il sogno orwelliano
Di ogni renziano
È far giochi loschi
Con Elena Boschi

Il sogno diverso
Di chi cambia verso
Veder la Madia
Guarir l'abulia

Renzinetti e renzinette
Mezze e garrule calzette
Ora sbavan come cani
Spudorati sagrestani

Facezie
Neologissimo. Vescòvo: detective trasteverino
Ritorsioni freudiane: Es pulsioni
Leviatano panormita: Homo homini pupus
Délire de lire est sagesse di @Pauline69006

                      Niente Malevič



lunedì 5 ottobre 2015

I gelsomini e le rose

Ferro 3 - La casa vuota di Kim Ki-Duk






















Lì fuori non infuriava la mortifera pestilenza, bensì qualcosa di molto simigliante e ahimè parimenti dannoso, sicché desiderando in letizia festeggiare Franco, il sei ottobre duemilaquindici, verso sera, le persone a lui care, in segreto cenacolo, si volle «ragunare a ragionare insieme» di poesie e passioni ed altre cose a tal segno vacue e disutili da parere, invero, affatto necessarie.

Camillo Sbarbaro nella prima poesia dei Versi a Dina, dopo il mirabile incipit La trama delle lucciole ricordi, dipana versi di limpida bellezza sul senso di perdita che incombe perfino sulle cose più preziose, la cui memoria è sempre sul punto di sbiadire nell'oblio.
E se il ricordare è rifugio precario e fragile riparo, occorre dire la causa di tale dissipazione inevitabile, senza arretrare o piegare le ginocchia o fingere vani giri d'insipiente retorica. Ma egli non si sottrae: disossa i versi usando quasi solo monosillabi e bisillabi, affinché suoni e accenti siano fusi in un ritmo inestricabile, e dà la sua risposta:
Oh come poca cosa quel che fu
da quello che non fu divide!
                                             Meno
che la scia della nave acqua da acqua.
Queste poche sillabe, come capita di frequente in Sbarbaro, pur nella vertigine di senso che dischiudono, sono pronunciate sottovoce e quasi bisbigliando nella luce radente di un sommesso occaso. Del resto, esse sfidano il non detto, creando una forma, certo appena una forma, all'indeterminatezza del male di vivere. I toni del rimpianto e il labile confine tra esistenza e assenza, tuttavia, sono gravidi di echi simbolici, molteplici e struggenti. In particolare, questi altri versi della stessa poesia accendono la ridda delle affinità e dei nessi ulteriori:
Estrema delusione degli amanti!
invano mescolarono le vite
s'anche il bene superstite, i ricordi,
son mani che non giungono a toccarsi.

Ma quelle mani che non giungono a toccarsi, sono il rimpianto di labbra assenti o di altre felicità intraviste, o quei baci che non si è osato dare, o il ricordo della compagna di viaggio, i suoi occhi il più bel paesaggio, per sempre perduta senza averle sfiorato la mano.

Sono i versi de Le passanti che per la prima volta ascoltammo storditi dalla voce di Fabrizio De Andrè. Poi scoprimmo che Faber li aveva ripresi meravigliosamente da Georges Brassens. Ma quel testo, in realtà, pur grato alla musica di Brassens, era già compiuto in sé, sia formalmente sia simbolicamente, e infatti era una poesia scritta nel 1911 da Antoine Pol, giunta fino a noi solo per un singolare e avventuroso caso.

Antoine Pol (23 agosto 1888 - 21 giugno 1971) poeta dilettante, sconosciuto più che dimenticato, era prossimo a trascorrere dall'anonimato nell'oblio, quando nel 1944 un ventenne bohémien squattrinato, Georges Brassens, per qualche spicciolo comprò da un bouquiniste, al mercato delle pulci di Porte de Vanves di Parigi, un vecchio libretto di poesie, stampato nel 1918 in 110 copie, dal titolo ingenuo e tronfio, Émotions poétiques di Antoine Pol, per l'appunto. Certo Brassens l'avrà sfogliato incuriosito e dubbioso se quel libriccino valesse i due franchi della sua cena; fortunatamente giunse a leggervi Les passantes, rimanendone folgorato, così come è accaduto poi a tanti altri, sicché decise di comprarlo, sacrificando forse la cena, ma del resto strappandolo definitivamente al vorace appetito dei topi di Parigi.

Già era un mistero ch'esso fosse sopravvissuto per più di vent'anni, abbandonato tra cantine e bancarelle, ignorato da tutti, tanto più curioso se si considera l'esigua tiratura delle 110 copie. Né il rischio del macero, né l'umidità della Senna, né l'indifferenza, tuttavia, erano bastati a cancellarlo del tutto dalla faccia della terra. Per questa via accidentata e casuale, dunque, giunsero a noi Les passantes, dopo un'ulteriore attesa di circa trent'anni invero, poiché Brassens si decise a inciderne la canzone nel 1972, mentre del 1974 è la versione di De André. Di lì in poi, il rimpianto delle occasioni mancate ha trovato nei versi de Les passantes la sua forma esemplare, fissando nella sublime contingenza di situazioni comuni, il desiderio che si accartoccia nella rinuncia della prudenza insensata o dell'indifferenza colpevole.

Il successo della poesia è chiaramente dovuto alla circostanza di essere diventata una canzone, raggiungendo così il più vasto pubblico. Ciò potrebbe autorizzare, a ben guardare, un'accigliata schifiltosità critica: in fondo, valori simbolici tanto democratici da divenir popolari, destano il lecito sospetto aristocratico ch'essi siano, se non dozzinali e volgari, almeno inclini ad un corrivo e facile bozzettismo. Che dire? Può darsi. Salvo che le immagini e le situazioni narrate dalla poesia di Pol, sembrano nondimeno accarezzate dall'ala d'una abbagliante grazia, che come il lampo montaliano «candisce / alberi e muri e li sorprende in quella / eternità d'istante» (La bufera). Ecco perché esse s'imprimono come stampi sulla cera delle comuni perdute passioni. E celles qu'on connaît à peine, qu'on ne retrouve jamais, e la compagne de voyage, dont les yeux, charmant paysage; o quelle che Vous ont, inutile folie, Laissé voir la mélancolie, o le Espérances d'un jour déçues, rivivono ad ogni ascolto nella delusa dolcezza di tutti e nella tristezza appassionata di ciascuno per le labbra assenti che non si è osato sfiorare.

Certamente, Antoine Pol resterà per sempre un poeta minore, ma in quel fatale giorno del 1911, ben ispirato dal Baudelaire del fiore del male XCIII, egli fu senz'altro visitato da una grande visione poetica che gli dettò i memorabili versi de Les passantes, i quali non cessano ancora di stupirci e commuoverci, ridestando il corrosivo dubbio in versi, anzi in versicoli, del Controcaproni, che Giorgio Caproni aveva concepito pensando proprio a Sbarbaro e a certi suoi (frettolosi) collocatori:

Dubbio a posteriori:
i veri grandi poeti
sono i «poeti minori»?

Di là dai dubbi, tuttavia, da Sbarbaro a Le passanti, si coglie un  filo che tiene nella stessa obliqua luce la nostalgia di quel che fu e il rimpianto di quel che non fu, in una comune tensione di presenza e assenza che si conferma quale luogo deputato della materia poetica, quando in essa divampa il desiderio. Nella sua incompiutezza costitutiva, infatti, il desiderio è sempre irrimediabilmente perduto, sia che si corrompa nel piacere, che realizzandolo lo tradisce, sia che resti nella crisalide d'un possibile mai divenuto.

Giunti però a questa pericolosissima soglia è necessario che le mie banali ciance cessino, in attesa che ben altri ingegni possano dirne con più competente scienza e con più alta coscienza, al cospetto di queste povere e polverose glosse, utili solamente come puerile pretesto per rileggere amati versi nel giorno di Franco, con gli amici insieme.

Salvo porre a sigillo, da ultimo, ma ben lungi da qualunque pretesa di conferma o smentita, le più potenti parole mai dette sul desiderio che dobbiamo al demone greco di Costantino Kavafis, nell'insuperabile traduzione di Filippo Maria Pontani:

Brame
Corpi belli di morti, che vecchiezza non colse:
li chiusero, con lacrime, in mausolei preziosi,
con gelsomini ai piedi e al capo rose.
Tali sono le brame che trascorsero
inadempiute, senza voluttuose
notti, senza mattini luminosi.
  
Qui i collegamenti per testi e testimonianze




lunedì 28 settembre 2015

La torre e la sabbia

Epigramma anagrammatico a Pietro Ingrao






Arringò poeti

Interrogò api

Arginò poteri

Perì ignorato



sabato 5 settembre 2015

Lascia stare

Sebastião Salgado, Menina sem terra 1996






















Come una pavana per un bimbo siriano morto annegato
il 3 settembre 2015, nei pressi di una spiaggia turca.



Lascia stare, lascia stare,
non guardare, non stupire
d'uno straccio in riva al mare.

Sul confine del partire
vane grida, mani perse
nell'orrore del morire,

delle lacrime sommerse
di risacca, d'asfissia,
sperdimento d'agonia.

Lascia stare, non guardare
spoglie amare in riva al mare,
colorate carte sporche
della nostra ipocrisia.





domenica 9 agosto 2015

Contro Qwerty Uiopè

di Manfredi di Ratumemi


















Tu che gran boria e vana gloria spandi,
Rustico abitator di gioghi alpestri,
Ruvido più de Satiri silvestri,
E di laurea centaurea t'inghirlandi

Né a piè spondei, trochei, piccioli o grandi,
Né a favellare e a conversar t'addestri
E da zoticità non ti sequestri,
O tu che carmi da sentina scandi.

E taffanni e ti scanni, angosci e sudi
Che non mangi e ti frangi e ti trucidi
E il tesor del cor d'Inés diffidi

E di tua vita il fil sottil recidi.
Tasto tosto perché mai tilludi?
Se nasciamo e moriamo ignudi e crudi?



Sappia il lettore che Manfredi, per sovrano disprezzo, non ha versato una stilla del suo alato inchiostro in questa oltremodo cialtronesca e sconveniente controversia, sicché ha dettato codesto sonetto usando solo versi tratti dai Leporeambi 26, 40 e 84 di Ludovico Leporeo (1582-1655), gran poeta incline all'invettiva non meno che alle donne. Giusto per sfizio egli ha aggiunto al centone, qui e lì, qualche baffo à la Duchamp.

Ludovico Leporeo, Leporeambi, Edizioni Res, 1993

sabato 8 agosto 2015

Carme del mio carme

di Qwerty Uiopè
Venere amore e gelosia di Agnolo Bronzino (1503-1572)





















Dolce Inés perché sì cruda taci?
Sibben lafa tincalzi in bianco petto,
levami il duol, dissipa l sospetto,
rimemorando i nostri impervi baci.

Manfredi fu colui de soffi audaci?
Quel che val nulla mai al mio cospetto?
Quel leccapiedi e poetastro inetto?
Quel che confonde l'afa con le braci?

Quel cicisbeo di delir mendaci,
inviso a muse degne di rispetto,
di trame facitor vane e fallaci?

Dilla la verità mio bel visetto:
sdegnasi l'alma a quei motti mordaci,
ben sai ch’il mio valor è ritto e retto.




*Il titolo è una delicata invenzione di Franco Chirico