domenica 12 luglio 2015

La linea e il circolo

Octavio Ocampo

«Al lettore che preferisco, il quale coltiva in segreto tutti i vizi dell'intelligenza contro i quali combatte; al lettore ipocrita, mio simile e fratello offro qualcosa su cui meditare.»

Con queste enigmatiche parole, a guisa di presago e provocatorio esergo, inizia la vasta e straordinaria opera di Enzo Melandri, La linea e il circolo.
Pubblicata dal Mulino nel 1968 e ripubblicata meritoriamente da Quodlibet nel 2004, l'opera presenta non già «una meditazione filosofica che approfondisce un unico tema» poiché, di contro, essa costituisce «una disanima, digressiva e tendenzialmente esaustiva di un vastissimo territorio, che finisce col coincidere con l'intero ambito della problematica filosofica» (Giorgio Agamben).
La raffinata cultura filosofica italiana, dall'accademia alla più ampia società dei dotti, ben oberata da gravissimi pensieri deboli e ripensamenti neorealistici da far tremar le vene e i polsi, per non dire di altre cagioni altrettanto esimenti, ha tributato a quest'opera di Enzo Melandri un implacabile e ostinato silenzio.
E insomma, quando è troppo, è troppo!
Come si può pretendere che la Linea possa assumere una curvatura tale da concludersi in un Circolo?
Meglio ruminare perversamente nella propria spettrale geometrica impotenza, signora mia; e che la conventio ad excludendum continui, poiché non abbiamo il giusto spirito per questa ipocrisia di cui ci sfugge il senso.
(Scuseranno i tre lettori ormai avvezzi a concisi parerga se si richiama un'opera che tocca la dismisura di un migliaio di pagine, del resto le più esigue e malcerte zattere servono proprio ad aiutare i naufraghi nel mare sterminato).