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Danilo Dolci (a fianco Peppino Impastato) |
Dal 1941 Santo era un
mezzadro del feudo Tùdia, al confine meridionale della provincia di Palermo,
dove ancora in quegli anni imperava incontrastato il latifondo. L’arbitrio e
la prepotenza di proprietari terrieri e gabelloti mafiosi non aveva alcun limite, al
punto che con la violenza e l’intimidazione essi impedivano perfino l’applicazione
della legge, ossia i famosi decreti Gullo del 1944/45 che disponevano la
concessione delle terre non coltivate alle cooperative dei contadini poveri e una più
equa divisione del raccolto tra mezzadri e proprietari.
Santo, stanco dei
soprusi, con la sua cavalla si reca a Petralia Sottana per chiedere aiuto al
Partito, ossia alla Camera del lavoro, e «ricevute le direttive», decide di cominciare la lotta per ottenere «che il prodotto
venisse diviso 60 e 40» come stabiliva la legge. Seguono questa decisione tante
vicende che egli narra in modo accorato e asciutto, dal carcere subito alle collusive
blandizie padronali, ma le sue parole impastate di sangue e sudore, raccontate da
Danilo Dolci, meritano di essere lette senza alcuna mediazione. Eccone alcune.
«Alle 4 del giorno 13
luglio, ci siamo recati in Prefettura, nella quale non abbiamo preso
abboccamento in quanto i signori non si sono presentati. Al ritorno i contadini
aspettavano con ansia il buon esito e passa Don Vittorio e il brigadiere, in
millequattrocento. Mi sento chiamare dal proprietario che mi dice di nascosto: - La
tua parte te la porti, e agli altri li lasci sbrigare a loro - . Io ho risposto che prima venivano gli
altri, e in ultimo me la sbrigavo io con lui. Lui mi rispose con aria e io gli
ho detto: - Lei tiene tutta quell’aria perché tiene
accanto certi della polizia, che invece di far rispettare la legge, fanno i
suoi interessi ̶ . Loro sono andati via,
e io sono ritornato coi mezzadri.»
Danilo Dolci,
Racconti siciliani, Sellerio, Palermo, 2008, p. 60.
Dall'infanzia fino alla tarda adolescenza sono stato amorevolmente allevato sulle
ginocchia di uomini come Santo il mezzadro, duri, coraggiosi, orgogliosi e per nulla
sprovvisti di ironia. Ricordando le lotte contadine degli anni
quaranta, mi raccontavano un episodio accaduto in un paese non lontano dal
feudo Tùdia, dove l’esasperazione per le intollerabili condizioni di miseria aveva
scatenato una sommossa popolare violentissima che perfino il Partito, pur guidandola, faceva fatica a controllare. Le case dei baroni e dei latifondisti
furono prese d’assalto e i mafiosi cacciati a calci nel culo. Alcuni dei compagni più valorosi occuparono e gioiosamente devastarono il Circolo dei galantuomini, luogo
simbolico dell’arroganza di classe, e procurata abbondante vernice rossa,
sulla sua nobile porta fumante vi scrissero a caratteri cubitali:
CAMMERA
DEL LAVORO.
I
compagni dirigenti con pudore sorrisero di quella cammera, ma saggiamente si guardarono bene dal correggerla. Quella scritta valeva come un simbolo, non come un testo, essa era la stessa
bandiera rossa sventolata da un soldato russo in cima al Reichstag sullo sfondo
delle rovine di Berlino il 2 maggio 1945.
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Ph. Yevgeny Khaldei |