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Nel paesone sotto il vulcano hanno un dialetto strepitosamente oscuro e
velocissimo, con intercalare sistematico della parola spacchiu, soprattutto quando dissentono ("che spacchiu dici") o si adirano
("che spacchiu vuole") o si
stupiscono ("cchi spacchiu!").
Sebbene di comune madrelingua, faccio una grandissima fatica a capire, ciò che
mi ha gettato in situazioni di sbellicante imbarazzo. Una pomeriggio tardi,
bussano al mio ufficio. Dico: prego. Silenzio. Urlo: si accomodi! Si apre la
porta ed appare un arzillo signore, a occhio e croce, ultrasettantenne. Lo
invito ad accomodarsi e lui comincia un lungo racconto in vernacolo
strettissimo. Sia perché non capivo quasi nulla, sia per i toni e sia per
alcuni contenuti della vicenda che cominciavo a intuire, pur invocando
mentalmente misericordiosi sottotitoli, avevo già in pizzo una irrefrenabile
risata che a stento contenevo, serrando la bocca e comprimendo i muscoli del
viso. Dopo parecchi tentativi capisco quanto segue. L’anziano signore è
follemente innamorato di una signorina brasiliana che vive in Portogallo. Tuttavia
l’amata è un poco bisbetica, non perché in sé cattiva, ma perché pesa più di 90
chili a causa di una disfunzione che le mette addosso parimenti adipe copiosa e
furie contundenti, al culmine delle quali non esita a gonfiare di botte
chiunque le capiti a tiro. Sicché lui, innamoratissimo, ha pensato di farla
operare in Italia per curare la sua grassezza e, a un tempo, le sue selvagge
intemperanze manesche da energumeno. E però, come farla venire in Italia per
curarla a spese del servizio sanitario nazionale? Sposandosi, lui aveva
pensato. Ma l’irritabile e feroce grassona aveva opposto un ritroso rifiuto.
Allora, come fare? Ecco, questo chiedeva a me, l’unico essere su questa terra,
gli avevano assicurato, che poteva trovare la soluzione. Già non ce la facevo
più a trattenere i muscoli facciali, ma ignoravo che il peggio doveva ancora
venire. Simulo un viso pensoso, rifletto, e lui in trepida attesa cessa il suo
mitragliante fuoco d’artificio vernacolare. Infine, cerco di indicargli una
possibile soluzione. Ma, dopo avermi ascoltato, con toni gravi mi risponde:
"mainunfazzucosiipuppi". Questo sento e non capisco, senza poterne
chiedere chiarimenti per non offenderlo. Allora ripete:
"inunfazzucosiipuppi", alla quinta o sesta volta, dopo aver tentato
mentalmente molteplici inutili divisioni della stringa verbale crepitante e
impastata, riesco a dividerla correttamente: "ma i’ nun fazzu cosi ’i
puppi" ossia "ma io non faccio cose di", ma i "puppi"?
chi sono? Con un sovrumano sforzo colgo quella che l’indomani avrei scoperto
come la denominazione locale corrente e universalmente conosciuta di gay e omosessuali:
"puppi", ossia pupi o forse polipi perché allungano le mani.
Mi si è fermato il respiro! L’ho rassicurato che le "convivenze di
fatto", NON SONO COSE DI PUPPI, perché quelle si chiamano "unioni
civili" e finalmente se n’è andato. Un pomeriggio terrificante. L’indomani
ho convocato tutti i miei e li ho debitamente e gravemente minacciati che la
volta successiva che avessero fatto entrare nel mio ufficio un altro efferato
essere vernacolante, pretendevo la traduzione simultanea, o li avrei trucidati
sul posto, dopo terribili tormenti. E insomma.
Ma la storia del
mandrillo ottantenne follemente innamorato della cicciona brasiliana, non poteva
finire così. Infatti, la vicenda ha avuto un seguito prima sorprendente, poi
agitato e infine un epilogo lieto, si fa per dire. Eccone il resoconto.
Alfio, chiamiamo così
il nostro personaggio che nulla voleva avere a che fare con i puppi, riesce a convincere l’amatissima
ragazzotta di Ipanema, che chiameremo Taíssa, a raggiungerlo in Italia con
tutto il suo peso. Una festa grande, anzi grossa, si annuncia. Taíssa giunta
nel paesone si persuade infine a concedere la sua mano ad un Alfio raggiante,
che immantinente chiede agli uffici comunali la pubblicazione del matrimonio.
Subito dopo, per onorare la promessa di curare la debordante pinguedine dell’amata,
egli non esita a procurare per Taíssa la migliore clinica di bellezza sul
magico lungomare che guarda le Isole dei Ciclopi, dove nuotano le snelle sirene
che ispireranno senz’altro l’opera immane dei chirurghi che dovranno restituire
forma alle grazie perdute dello smisurato corpaccione di Taíssa, al modico
prezzo di ventimila euro, diconsi ventimila.
Alleggerita di
tracimante ciccia per asportazione di vagonate di adipe superflua, Taíssa
trionfante torna con Alfio a casa, dove si avviano i preparativi per le
imminenti nozze. In pochi giorni, si fanno le carte bollate e si imbandiscono i
festoni del maturo sogno d’amore. Ma una notte tempestosa, forse per un
imprevedibile influsso nefasto del fatale vulcano, Taíssa monta in collera e d’improvviso
strappa il certificato di pubblicazione di nozze in mille coriandoli
sanguinanti, e poi con tutta la sua possanza, resa ancor più vigorosa per la
recente sottrazione delle appendici ridondanti, con furente ferocia si scaglia
su Alfio e lo fracassa di botte, e poi altre botte e poi ancora mazzate da
orbi. Alfio pur dopo le legnate, ammaccato ma non vinto, si mette a raccogliere
i mille pezzi del certificato di nozze, ridotto in minuti brandelli dalla furia
di Taíssa. In capo ad alcuni giorni, Alfio riesce con pazienza certosina a
ricomporre il vestigio residuo della sua promessa di felicità, ossia il
certificato, ma intanto l’escandescente e belluina balena continua a malmenarlo
regolarmente con impegno analogamente certosino. Il giorno prima della data
fissata per il matrimonio, Alfio, con ogni cautela, si reca segretamente all’ufficio
di Stato Civile con la scusa di chiedere se quel che restava del certificato di
pubblicazione di matrimonio era ancora valido. Trascrivo di sotto il dialogo
che ne seguì con l’Ufficiale di Stato Civile, tale signora Franca con cui si
conoscevano da lunga pezza.
Franca – Alfiù che
spacchiu facìsti, chiffà cadìsti? (traduz. – Alfio che passò? Sei forse
caduto?)
Alfio – Sì sì
sciddicaiu da scala. Fra’, ricimi na cosa, sta catta, chi si stricà ’nda
caduta, jè ancora valida? (traduz. – Sì in effetti precipitai dalle scale,
ma cara Franca, dimmi, questo certificato che si strappò nella caduta è ancora
valido?)
Franca – Alfiù ma
quannu mai! Sta cosa jè ripizzata e illiggibili. (traduz. – Alfio, temo
proprio di no! Il foglio così rattoppato è illeggibile) Però per la nostra
grande amicizia facciamo che te lo fazzu valere lo stesso.
Alfio – E picchì? Si jè
ripizzato, jè ripizzatu e basta! (traduz. – E perché? Se è così malridotto,
non posso pretendere che tu venga meno ai tuoi doveri).
Franca – E chi spacchiu
rici: l’amicizia jè amicizia? O mi vuoi riciri quaccosa? (traduz. – Suvvia che
dici? Per amicizia si fa questo e altro. O mi vuoi forse dire qualcos’altro?)
Alfio – No no, i’ ti
ringraziu, ma jè ripizzatu assai, a taliallu giustu. (traduz. – Oh no, io ti
ringrazio davvero di cuore, ma il certificato, a ben guardare, è davvero troppo
malridotto.)
Franca – Vabbè, va
beni: ni capimmu. (traduz. – Ci siamo
capiti.) Allora questo certificato non è più valido.
Alfio – Brava Fra’ ni
capimmu. Dumani appena tu nu rici ìu fazzu vuci, pazzìu, m’incazzu cu tia a
mali paroli. Ma senza offisa, paparedda mia. Un vùgghiu cchiù càdiri da scala.
(traduz. – Grazie cara Franca, ci siamo capiti. Domani quando ce lo dirai,
io faro voci, farò il pazzo, mi infurierò con te insultandoti. Ma senza offesa,
bella mia. Non ho più voglia di cadere dalle scale).
Franca – Tìniti accura
e menza parola. (traduz. – Abbi cura di te, ci penso io).
Ah che scena madre l’indomani
in ufficio: Alfio che levava vibrate proteste e Franca che con fermezza
ribadiva che il matrimonio non s’aveva da fare con quello straccio di carta
incollata. Poi Alfio che pregava affranto, appellandosi all’antica generosità di
Franca che non poteva, per così poco, spezzare il sogno della sua vita! E quale
infinita tristezza ella voleva infliggere ad un uomo con le valigie già pronte
per volare in Brasile con questo fiore di ragazza. Taíssa in uno stato di
quieta attesa, taceva pachidermica e tronfia, ma una profonda piega di lardo sulla guancia, tradiva il sollievo dello scampato pericolo.
Seguirono giorni
agitati nei quali la furiosa Taíssa, con incessante ferocia bovina, non risparmiò
Alfio da altre percosse carioca, finché decise di tornarsene da dove era
venuta. Le ultime due notti Alfio dovette rifugiarsi da un amico, perché non
soddisfatta delle busse con le quali sfogava la sua ira, ora Taíssa aveva
cominciato pure ad accusarlo di pedofilia (sic), ché un simile vecchione aveva tentato
d’impalmarla, minacciando la sua illibata innocenza susannesca, oramai più che
trentennale.
La accompagnarono all’aeroporto,
dove arrancò di brutto il suo aereo appesantito prima del decollo. Così Alfio
si liberò del più agitato e greve incubo mai capitatogli. Disilluso, infine, e
pieno di ecchimosi e graffi e tumefazioni assortite, ma alleggerito di
ventimila euro e derubato del suo ultimo sogno d’amore.