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Ph. Alexander Petrosyan |
In
un tempo in cui Twitter non era ancora una barbara prateria di furiose mandrie
contrapposte in fazioni stivalute e mascellute, di inani narcisismi postribolari e
miasmi maleodoranti di maramaldi maleadoranti, nonché di balcanizzati ovili
dell’algoritmo prezzolato, bestiali camorre mistificanti e garrule plebi
grulle, capitava di scoprire, giocando, persone meravigliose che celatissime
nella riservatezza di un nom
de plume, generosamente condividevano il
loro molteplice e variopinto ingegno.
In
particolare, un nom de
plume floreale e scespiriano, per vastità
di conoscenze e sfolgorante acutezza d'intelletto, suscitava, circa la sua
primaria identità, un rovello discreto, mai
trasceso in volgare curiosità, e nondimeno pertinace e affascinante come uno
splendido enigma. Poi un giorno, or sono tre anni, mi illusi di essere venuto a
capo del mistero, persuadendomi parimenti del dovere di tacerne senz’altro la
soluzione, ma avvertendo tuttavia il personale obbligo di rendere un grato tributo alla bellezza dei
fiori di Leibniz che segnando ardui sentieri, pur nell’oscurità simile a fosca notte, possono ancora
condurre a Damasco.
Misteriose
e impervie sono le vie della conoscenza. E tali, una volta percorse, da fornire
prove dolorose del nostro attonito e sciagurato ottundimento, che sovente
preclude una retta comprensione del resto lampante.
Il
primo marzo duemiladiciassette compitando I
principi della filosofia o Monadologia, ossia, per i permalosi, Principia philosophiae more geometrico
demonstrata di Gottfried Wilhelm Leibniz, sul punto di rimeditare la
fondamentale tesi numero nove, ove è formulato il principio dell’identità degli
indiscernibili, un lampo fiorisce improvviso sulle celeberrime parole del
grande filosofo tedesco: «Bisogna ammettere che ogni monade sia differente da
ogni altra. In natura, infatti, non vi sono mai due esseri che siano
perfettamente l’uno come l’altro e nei quali non sia possibile trovare una
differenza interna o fondata su una denominazione intrinseca.» Ergo due enti
identici sono, in realtà, un solo ente. Ne discende che due persone caratterizzate
dalla medesima genialità, sono in realtà la stessa persona geniale. Certo,
qualcuno potrebbe eccepire che Leibniz non c’entri nulla, derubricando la mia
scoperta all’uso grossolano di paradigmi indiziari da Sherlock Holmes a Dupin,
concedendo i più generosi piuttosto un’inferenza abduttiva peirceana, ovvero i
più malevoli un triviale colpo - come dire? - deretaneo. Può darsi. E tuttavia
posso testimoniare senza tema di smentita, con assoluta certezza oggettiva e
psicologica, e al di là di ogni controversia logica e ontologica, che la
scoperta de qua è stata indotta dalle
citate parole della Legge di Leibniz, al quale devo ora gratitudine sconfinata
per avermi svelato un enigma bellissimo. Raggiunta codesta fanciullesca gioia
per la quale ho piroettato felice per ore nel nirvana pneumatico dei solutori
d’enigmi, verso la persona che ha ordito un così brillante inganno è ancor più
cresciuta l’ammirazione, poiché moltiplicandosi grazie al suo multiforme
ingegno, mi ha concesso il privilegio d’amarla due volte, a sua insaputa, si capisce. Tale ammirazione, del
resto, mi obbliga all’osservanza di un silenzio pitagorico nel quale riporre
gelosamente la mia felice scoperta, sul fondamento di un altro essenziale
principio leibniziano, quello di ragion sufficiente, ossia nihil est sine ratione: se
una identità, ancorché gemellare e immaginaria, pur tuttavia esiste, essa avrà
una sua ragion sufficiente e come tale merita ogni cura di riservatezza premurosa e complice, al pari dell’identità primaria.
Se
per contro, essa scoperta fosse un sogno arbitrario e infondato, potrei in ogni
caso imputarne la cagione alle fumisterie della metafisica di Leibniz, tanto
affascinante quanto ingannevole e fallace. Forse.