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Piero Guccione, Mare a Punta Corvo, 1995-2000 |
Molte
persone, sempre più di frequente, mostrano di stracciarsi le vesti e il crine
in elogi sperticati ed altre laudatorie litanie, invero pelosissime, rivolte ai
cari estinti, mentre verso i viventi in salute, fiorente o malferma, spesso
tributi pur doverosi sono lesinati appena, talora per decenza, talaltra per
circostanze assai meno commendevoli. Capita sovente di sentire lamenti di
questo tenore: «Ah se solo ora potessi, quante cose avrei da dirti caro papà, o
caro amico, o cara la mia sposa, o caro maestro». Sfugge la ragione per cui
questi dolenti inconsolabili non abbiano trovato il tempo di manifestare i
sensi di cotanto amore quando i beneficiari, ancor viventi, avrebbero potuto
prestarvi un orecchio palpitante ed eventualmente grato.
Contro
tale malaccorto e patetico andazzo, mi sono dato la regola di dire subito, ora
e qui, tutto il bene possibile alle persone a me care, ovvero stimabili per il
loro certo valore.
A
cagione di una malmostosa diffidenza verso linguisti, semiologi e grammatici,
ispirata dai miei perniciosi pregiudizi permeati della boria delirante dei miei
studi filosofici, ho scoperto assai tardi l'affilatissimo genio di Apollonio
Discolo, nom de plume che per celia cela il professor Nunzio La
Fauci. Certo, leggevi Saussure o Benveniste e pochi altri, e si schiudevano
mondi, ma tolti i maestri, la deriva degli officianti chini su una scolastica
corriva, mi recava il disagio di un pensiero ingenuo e dogmatico, tale da
destare grevi imbarazzi al pari di una peperonata. Poi per un caso
fortunatissimo cominciai a leggere gli scritti e le opere di Nunzio La Fauci
con un crescente interesse dapprima, presto divenuto grande considerazione, per
tramutarsi infine in ammirazione devota.
In
questo tempo sempre sul punto di sfarsi in mille rivoli di cieca stoltezza e
tracotanza sbilenca, dominato dalla tirannide asfissiante d’una incessante
chiacchiera, nel trionfante spaccio di asinerie ragliate e apoftegmi latrati in
preda a fumi etilici, onde si fanno ostie da raffermo smegma, la frequentazione
della sua radicale razionalità militante ha nutrito il mio spirito,
generosamente. Tanto più che la sua scepsi è costantemente accompagnata da
burbera pietas, gaia malevolenza, malumore euristico, sgomento caustico, irritazione
paziente e letizia ironica. L’intreccio virtuoso di passione e disincanto,
infatti, rende magistrale la sua lezione, arricchita da una lingua non comune,
retta da una precisione lessicale tagliente che si distende in un movimento
sintattico flessuoso, dove una ipotassi preziosa sorregge arcate luminose e
sincopate, che a me ricordano l’articolazione frastica di Ravel. Quando poi
egli esercita il genere aforistico, ottiene per sottrazione una flagranza
screziata e brillante. Così attingendo vertici di stile in cui pulsa la ricerca
costante di una densità espressiva lussuosa, a un tempo scabra e opulenta.
E
tuttavia la stima per la qualità rarissima dei suoi talenti molteplici, non ha
del resto mai esaurito il mio entusiasmo, a causa di un ulteriore sospetto
felicemente arbitrario.
Vladimir
Nabokov ne Il dono, raccontando del mirabile esploratore Konstantin
Godunov-Cerdyncev, lo descrive come un uomo che forse «sapeva due o tre cose
che nessun altro sapeva». Analogo sospetto m’ispira Nunzio La Fauci, ossia che
egli sia un esploratore di parole e lingue, segni, testi e contesti, che non
teme i sentieri più incerti e ardui
perché sa due o tre cose che nessun altro sa. E se anche questo sapere fosse
semplice coscienza dei limiti d’ogni sapere, la sua lezione sarebbe parimenti
illuminata, poiché, come scriveva Antonio Machado, «sono le tue orme / il
sentiero e niente più; / viaggiatore, non esiste il sentiero, / il sentiero si
apre camminando.»