Più saggio è tacere ciò che sarebbe sgradevole dire,
salvo che non sia a rischio un qualche valore fondamentale ovvero che l’indignazione
non tracimi oltre il limite del pudore. Nulla più dei valori artistici è
soggetto alla mobilità diacronica delle pratiche sociali; e d’altronde si
assiste al fiorire di geni che lasciano sgomenta perfino la famosa lampada,
ancorché opulenti di fascino mondano e di vasto seguito per i loro artifici ridicoli
circonfusi dell’arbitrio più infondato e ovvio.
Prendete Sofocle del demo di Colono, autore di
capolavori immortali che hanno interrogato i più alti ingegni d’ogni tempo,
mettetelo nelle mani di un superbo teatrante di mondo, parimenti saccente e borioso,
ne otterrete un granguignolesco intruglio offerto in sacrificati e latranti
berci dell’alta scuola dell'enfasi strillona.
Del resto, Elettra, com’è evidente per una costante
etimologia da mercati rionali, deriva il suo significato dall’elettricità,
sicché la sventurata dovrà essere agitata, eccitata, irrequieta, svalvolata, contagiando
per contatto gli altri personaggi, onde il registro inevitabile dell'intera
recita non potrà che essere urlato a squarciagola. E poco importa se la
veemenza non si distingue dalla furia e l’arroganza dalla disperazione, o l’esultanza crudele dall’autocommiserazione, o l’impeto
dal sussiego e l’ironia dal
sarcasmo sprezzante. L’imperterrito sgolato ululato monocorde restituisce il
senso isterico del tragico, con effetti strazianti sulla uallera di attori e spettatori.
E importa ancor meno che Sofocle abbia sottolineato l’acme
emotivo dell’agnizione alternando al pathos gioioso di Elettra, espresso in
metro lirico con strofe antistrofe ed epodo, la pacata razionalità di Oreste nella
forma del "prosaico" trimetro giambico (Marzia Mortarino); il novello
teatrante geniale se ne fotte, e risolve il climax, con coerente sicumera granitica,
sommando le due voci all’unisono in uno sguaiato barrito sovracuto, rialzato di
due ottave per celebrare con la debita enfasi il fatale strofinamento agognato.
Intanto dall’Ade via Acheronte giunge una soffocata eco
sofoclea, forse sorridente e forse no, rivolta a guisa d’apostrofe
anagrammatica all’artefice di cotanto strazio: «Vi raglia e bela».
Da ultimo, consumate le vendette di rito, tra alti
strepiti e fragorose cagnare finali, ecco la cavea che s’alza commossa e
tributa un’ovazione plaudente ai guitti in trionfo. Ma come?! Che fate? Ma perché?!
E niente, mutatis mutandis, aveva ragione
Falstaff, ahimè:
«Tutto nel mondo è urla».