Negli eventi del
secondo decennio del Novecento si consumò la catastrofe dell'Europa; adesso,
dopo un secolo, quasi negli stessi anni, sebbene in altre forme, analoghe
pulsioni autodistruttive annunciano una ineluttabile nuova catastrofe europea. Un
grande romanzo, Rubè di Giuseppe
Antonio Borgese, narrando quegli anni terribili del Novecento, seppe cogliere
il nesso inestricabile tra politica e psicologia, consistente nella solidale
specularità della nevrosi individuale con la crisi politica che portò alla
guerra e poi ai fascismi.
Eppure, come se «un
vento ingiusto l’abbia soffiato via dalla nostra letteratura» (Guido Piovene), Rubè (1921) è finito negli scaffali più
inaccessibili delle biblioteche di oggidì, forse a causa di una sorte critica
pervicacemente contrastata e ostile che gli ha negato il rilievo letterario che merita, non solo e non tanto perché Rubè
avvia la stagione del romanzo del Novecento, ma perché la nevrosi nichilista di
Filippo Rubè ha la stessa sostanza della rottura pirandelliana del soggetto da Vitangelo
Moscarda di Uno nessuno e centomila a
Mattia Pascal.
«Abbiamo le mani senza
calli e coi tendini fiacchi; non sappiamo stringere né una vanga né una spada;
e sappiamo stringere solo il vuoto», confessa Filippo Rubè, consapevole di non
poter sfuggire al suo destino, malgrado l’amore devoto e necessario di Eugenia
Berti e l’amore felice e contingente di Celestina Lambert. Il fascino perverso della
violenza e il mito effimero della guerra, la contiguità e il disprezzo del
fascismo nascente, l’ossessione della purezza in stridente contrasto con una
realtà limacciosa di compromessi, sono le componenti della personalità di
Filippo Rubè, la cui ambiguità inevitabile è sempre crogiolo vivo di una
innocenza colpevole, come il «rivo strozzato che gorgoglia».
«Siccome
non erano nemmeno le cinque, Filippo prese le vie più lunghe per arrivare alla
stazione. Gli piacque vedere il cielo esausto colorarsi. L’aurora era nuda di
nubi. A volte, nei crocicchi più deserti, le rondini gli volarono accosto,
quasi senza timore, ed egli ne sorrise. Milano non gli era mai sembrata bella.
Quella mattina sì. Certo non c’era
altra città in Italia che somigliasse tanto a Parigi. Gli alberi erano immobili
in fondo ai cortili, e le facciate ridevano alla luce senza aprire gli occhi.
La domenica di aprile aveva un lungo dormire, e le finestre restavano quasi
tutte chiuse. Se una, a un ultimo piano, s’apriva con un vivace sbattere di
persiane contro il muro, quell’inizio di vita diurna aveva una festosità d’inaugurazione,
e veniva voglia di gettare a mezza voce un buon giorno all’inquilino. Egli
andava senza pensieri, pieno di un sonno dolce e prorogabile.»
Giuseppe Antonio Borgese, Rubè, Milano, Mondadori 1994, p. 235
Giuseppe Antonio Borgese, Rubè, Milano, Mondadori 1994, p. 235