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Ph. Mario Giacomelli |
Quale
indizio fa presumere al ciurmatore pessimista cosmico che l’altrui uzzolo
incandescente sia l’ascolto delle sue lamentazioni sulle luttuose sorti e
progressive? Sicché non sarebbe abbondevole l'incessante cimento quotidiano con
guai sguaiati, faccende sfibranti, noie nefande, malattie covate e covanti,
disgrazie a cavallette, maschi con la testa sulle palle e femmine astiosissime,
vecchi rincitrulliti, fantolini sciagurati ed altri calamitosi cretini che alla
guida di affollati greggi d’imbecilli rancorosi, dilacerano le molli nostre carni
pendule, già dimentiche d’ogni loro propria primitiva funzione, solamente
rassegnate oramai a dar misura manometrica di assortiti disgusti?
Ancora
serve una supplementare sapienza apocalittica che fa la punta alla mentola
della vanità del tutto? Vaticinando da ogni evento il presagio perverso,
precursore d'un ineluttabile abisso ulteriore? Non ci bastava, dunque, la reale
copiosissima melma scatologica da tempo alzatasi fino alle rotule di taluni,
tacendo d'altri ai quali ha superato di slancio il bellìco, minacciando di
tracimare irresistibilmente verso la pappagorgia?
E
si capirebbe tanta facondia maligna, solo se fosse lecito credere che, al basso
continuo dell’orrenda realtà presente, piace agli dèi l’aggiunta di un arpeggio
profetico d’arabescati incubi e stragi imminenti, in armonia con le prossime
sventure inevitabili, onde seminare altro panico sulla terra desolata della
comune coscienza infelice, dove non cresce più l’erba già da lunga pezza.
Eppure,
da che il mondo è mondo, al sofferente si porge conforto, consolazione si
presta all’afflitto, e solo un cialtrone smisuratamente feroce verserebbe fiele
in gola all’avvelenato e sale sulle piaghe infette del ferito. E non di meno,
codesti oracoli della malasuerte garriscono garruli, con
cocciutaggine somara, sversando sinistre logorree ulteriori. Ma vivaddio, nulla
ci è risparmiato del male del mondo, perché non tacere ominose retoriche
additive? Del resto inani?
I profetici apostoli del male a futura memoria,
sebbene illuminati, infatti, sembrano ignorare un celebre paradosso che lo
spettinato Stanisław Jerzy Lec celò in un aforisma: «L’eterno sogno
del boia: i complimenti del condannato per la qualità dell’esecuzione».
La
palese inutilità dei loro sforzi, persuaderà i ciarlieri predicatori,
cantastrofisti della iella incombente, a deporre la loro acribia molestissima?
Ne dubitiamo.
Ci
piace perciò ricordare il Frate Altiero che ogni santa sera, per tutto il
convento, sulla soglia delle loro celle, aveva confortato i confratelli con un
compassionevole: «memento mori». Ebbene un giorno, molto infausto si capisce,
Frate Altiero, proprio lui, volò tra le braccia del Signore. Un terribile temporale si scatenò subito dopo la sua cristiana sepoltura, come se financo il cielo
fosse furiosamente partecipe dell’unanime cordoglio. Quando tornò il sereno,
tutti i confratelli dolenti che si recarono in corteo sulla tomba di Frate
Altiero, constatarono con sollievo che la pioggia aveva offeso solo con lievi
danni il fresco tumulo di terra, ma ahimè nella lapide erano cancellate del
tutto alcune lettere del caro nome dell’estinto,
in particolare, più non si leggevano la prima lettera, la seconda e la settima,
mentre della sesta restava appena un baffo, tanto da parere inopinatamente un
accento, ossia « tie' ». Quel che restava del nome destò una interrogativa afflizione nei
fraticelli, che perciò si ripromisero di porvi rimedio al più presto. Lungo il
sentiero che riconduceva il mesto corteo in convento, il silenzio, qua e là, fu increspato
da gutturali e soffocati suoni, appena somiglianti a sorrisi, ma forse erano
solo i versi degli uccelli che passavano da lì. Forse.