Accadde
un dì nevoso e malinconico che un ambasciatore venne alla corte di
sua maestà Ansoaldo, amato nostro re grande e possente. Splendeva
già nel cielo e in ogni dove la luce della sua immensa gloria e la
sua nobile fama inconcussa correva di valle in valle, valicando i
laghi, i fiumi e perfino i ruscelli. La mente e il cuore dei suoi
orgogliosi sudditi erano satolli del portento d’un re tanto
adorato, così eran sempre pronti a celebrare tanto custode,
consapevoli ch’egli era uomo davvero smisurato e forse dio,
certamente da divina schiatta discendente e senza dubbio alcuno
destinato ad ascendere nel Walhalla, si capisce, il più tardi
possibile.
Parlare delle virtù di re Ansoaldo sarebbe compito gravoso per chiunque; perfino lo stagirita, è da credere, penerebbe, ché i suoi costumi esuberavano dalla norma più eccellente della moralità del mondo. Oltre ogni segno liberale benigno e magnifico, smisuratamente temperante, per non dire dell’impetuosissimo coraggio di mente e di spada. Per nulla mai il suo popolo ebbe da levar querimonie o lamenti o rimostranze. E nondimeno, una certa inquietudine serpeggiava da qualche tempo a causa della regina Romilde che esitava a moltiplicare il nobile sovrano, benché da molte lune si fosse consumato l’imeneo.
Parlare delle virtù di re Ansoaldo sarebbe compito gravoso per chiunque; perfino lo stagirita, è da credere, penerebbe, ché i suoi costumi esuberavano dalla norma più eccellente della moralità del mondo. Oltre ogni segno liberale benigno e magnifico, smisuratamente temperante, per non dire dell’impetuosissimo coraggio di mente e di spada. Per nulla mai il suo popolo ebbe da levar querimonie o lamenti o rimostranze. E nondimeno, una certa inquietudine serpeggiava da qualche tempo a causa della regina Romilde che esitava a moltiplicare il nobile sovrano, benché da molte lune si fosse consumato l’imeneo.
Tra
i sudditi si sospettava ignavia o inettitudine o qualche perniciosa
infermità da parte della regale consorte. Perfino i dignitari più
prossimi giunsero, con estrema discrezione, si capisce, a chiedere se
il re fosse felice, se le nozze avessero reso più liete le sue ore,
massime quelle notturne, si spinse a domandare il più impertinente.
Ma il re rassicurò tutti benignamente e profuse le opportune lodi
per la sua Romilde amata, congedò quell’udienza tradendo invero un
certo qual fastidio.
Romilde,
donna di crin corvino e frondoso e occhi lucenti, altera e di
perlacea pelle, aveva un corpo flessuoso e bellissimo e superbo,
tanto che poteva essere solo invidiata o imitata ma giammai superata
per grazia e fascino. La sua inarrivabile venustà però, nonché
scatenare alla sua vista galanterie rispettose ed altre più celate e
turgide illusioni per nulla commendevoli, recava del pari un
turbamento d’altronde inesplicabile, nutrito tuttavia come
dall’inquietudine d’una perfezione non votata del tutto agli
immutabili decreti della natura e della tradizione.
Giunse
dunque l’ambasciatore e con lui un corteo assai folto di famili e
soldati per seguito acconcio. Furono alloggiati soddisfacentemente
gli altri e con decoro e dignità il legato, ch’era uomo giovane e
biondo, raffinato ma di tratto assai deciso, e come uso da lunga
pezza a stare sopra i molti.
Ignoti
erano i temi della sua missione, né annuncio era giunto per tempo a
corte; noto, si fa per dire, era solo il committente: un re lontano
d’ignota fama e di un inusitato regno, sua maestà Desiderio re di
Edonesia.
Benché
dunque inattesi, agli ospiti fu usata ogni cortesia onde immantinente
re Ansoaldo inviò uno dei suoi dignitari presso l’ambasciatore per
recare il suo saluto e l’invito per il banchetto della sera
imminente che avrebbe celebrato l’amicizia dei due popoli nel modo
più conveniente. Gradiva re Ansoaldo conoscere il nome
dell’ambasciatore, chiese il dignitario prima del commiato.
— Dite
al vostro augusto reggitore ch’io sono Azzone di Galeazzo, principe
di Talamo, duca di Copula, barone di Cunno, conte di Crapula, Collare
d’oro dell’Ordine della Verga, nonché marchese del Baldacchino,
Grande Nerchia del Regno, Pari di Lancia, Nastro Fiorito della Pompa,
cavalier di Renidiferro, da ultimo insignito della suprema
onorificenza di Fecondator Optimus nel concistoro della Granmazza.
Così
concluse con gusto e gravità l’ambasciatore orgoglioso di
enumerare i suoi titoli molteplici e prestigiosi. Solo che il
dignitario di Ansoaldo ascoltava con fremiti crescenti e
irrefrenabili quell’elenco tanto inverecondo e sconveniente per il
suo pio sentire. Superato il primo sbigottimento proruppe pertanto un
po’ alterato.
— Monsignore,
sappiate ch’io sono il primo dignitario del regno, non l’ultimo
maniscalco di cui senza tema ci si possa fare beffe. I vostri nomi
sono ambigui, empi e tralignano nell’osceno, affatto
irripetibili al cospetto del nostro re santissimo e morigerato. Vi
invito a recuperare tosto il sentimento onde conferir con me come
s’addice a un gentiluomo, dismettendo i panni del furfante. Suvvia
fuori i vostri nomi buoni e veraci, bando al ciarpame genitalizio,
limitatevi senz’altro alle voci gentilizie, se nel caso ne vantate.
— Come?
Solo il mio ufficio momentaneo di legato vi risparmia da una sicura e
dolorosa morte di stocco o di brando. Come osate discutere i miei
titoli e la mia dignità e il mio onore? Ciarpame? Sappiate
bellimbusto e borioso baciapile che nel mio regno essi al solo
annuncio suscitano riverenza e pur terrore e ossequio. Sappiate che
decine di avi della mia stirpe gloriosa hanno sostenuto ogni cimento
e impresa, sempre a spada tratta, per meritare la corona araldica dei
nomi, titoli ed onori del mio nobile casato. Vi vieto pertanto di
condurre oltre un siffatto ignobile vilipendio, se volete evitare
durissime pene. Tacete, vergamolle d’un marrano pederasta. Tacete e
recate al vostro re le mie sublimi e ferrigne credenziali. D’altronde
congedatevi prima di subito da me, prima cioè che la furia di Azzone
prevalga sui doveri di cortesia del suo ufficio di legato.
Dinanzi
al furore davvero incontenibile di Azzone, vacillò prima nel dubbio
e poi nello spavento vero e proprio il già tracotante dignitario di
Ansoaldo, conte Turibaldo. Egli dapprima pensò di replicare
duramente, ma quando s’avvide che il legato aveva davvero portato
la mano allo stocco, girò i tacchi e rinviò ad un momento più
propizio la vindice difesa del suo onore offeso.
Come
le nubi veloci di primavera svariano precipiti nel cielo fino a
lasciare l’azzurro terso e immacolato, senz’altro, in un battito
di ciglia, così si rinfrancò di colpo l’umore furioso di Azzone,
il quale ancor prima che il conte Turibaldo varcasse l’uscio in
precipitosa fuga, già rideva a squarciagola tributando alla sua
codardia una scia rumorosa d’irrisione sferzante. Turibaldo, non
poté non sentire, solo che il supremo dovere di mettere in salvo la
sua vita, già peraltro consacrata al suo re, sopì i morsi per le
ferite della sua dignità di dignitario.
Corse,
sbuffò, si stropicciò lungo il tragitto che lo riportava a palazzo,
dove, giunto trafelato, si precipitò dal Gran Ciambellano che era in
sua attesa.
— Congiura!
Infamia! Complotto! Una grave minaccia, esordì Turibaldo, ci è
penetrata in seno. L’ambasciatore! L’ambasciatore! Quale
pericolo! Quale scandalo!
— Che
accadde? Calmatevi, riferite senza esclamazioni, come volete che
capisca? Dite quel che passò con chiarezza, cos’è
quest’agitazione? Avete condotto dunque la vostra missione?
— Certo
che sì, barone Arialdo, certo che sì. Ed essa è la cagione della
mia inquietudine e della mia agitazione. Quell’uomo è un furfante,
un facinoroso, un malandrino. Dobbiamo alzare alte mura a usbergo del
malcostume ch’egli reca e spande.
— Conte
Turibaldo, mettete un freno alle vostre emozioni, volete o no farmi
rapporto dettagliato? Ditemi i fatti, allora. Tanto più se v’è
rischio e minaccia. Basta coi farfugliamenti, parlate adunque, disse
spazientito e al limite dell’ira Arialdo.
Non
fu impresa semplice ricostruire l’episodio della missione del conte
Turibaldo, il quale raccontava, chiosava, interpolava, s’infuriava,
crepitava di propositi, s’indignava, fingeva congetture, si offriva
come sicario, compitava manuali di morale, citava i padri della
chiesa, discettava di ogni dettaglio irrilevante, gorgogliava di
esegesi sottilissime e infine tornava a offrirsi come mandatario
dell’omicidio indispensabile del prepotente e obliquo ambasciatore.
Arialdo
talora con la carota e più spesso con il bastone, interrogò,
rimproverò, schiarì, ricostruì, e infine, con gran fatica, stabilì
l’accaduto.
— In
effetto v’è da meditare. Se non che il tempo è breve, il
banchetto non si può rinviare, dobbiamo giungere con celerità ad
una deliberazione almeno provvisoria, osservò gravemente il Gran
Ciambellano.
Fu
urgentemente adunato un consiglio segretissimo per attingere alla
sapienza geografica, alla scienza medica e alle incontrovertibili
verità teologiche e morali, ogni argomento acconcio a discernere
alla bisogna del caso che occorreva: trivio e quadrivio furono
pertanto convocati e consultati con attento e diligente scrupolo.
Eppure non si pervenne a pervie e concordi conclusioni.
L’arcivescovo
Pudibondo, tra formule dissimulate ed evocazioni esaltate, suggerì
di avvelenare il legato prima del banchetto: «vengo con la spada»,
ripeteva dalle sacre scritture. Altri proponevano di passare a fil di
giavellotto l’empio infedele, appena avesse rivendicato al cospetto
di Ansoaldo gl’immondi titoli riferiti da Turiboldo. Malgrado
l’ardore divampasse in quel consesso talché il simposio sembrò
trasformarsi in un certame di assassini di fervida immaginazione,
tuttavia Arialdo ammonì i presenti e ordinò a tutti di mordere il
freno, poiché gli pareva più fondato e utile condursi secondo il
consulto saggio e moderato del nobile Geodato.
Orbene,
opinava Geodato, il massimo geografo del regno, che il mondo è vasto
e vari sono i costumi, del tutto lecitamente convenzionali i titoli e
le lingue e le parole invero, fuor dall'orecchio del re, si capisce.
Mentre
Azzone trafficava furiosamente tra gemiti e sospiri nel suo giaciglio
divenuto un’ara di piacere, sentì all’uscio un rapido trapestio,
indi, preceduto e seguito da un fruscio, un tonfo leggero, onde si
riscosse e guardò calmo la fessura della porta. Per terra v’era un piego, in
effetti. Discese dal talamo infuocato e lo raccolse. Il piego era
giallo con una vasta ferita di ceralacca ancor madida recante un
sigillo stellato che circoscriveva una A, nettamente incisa. Aprì e
lesse.
«Arialdo,
il gran ciambellano, Azzone saluta.
Eccellente
ambasciatore, anzitutto, porgo le scuse per la riprovevole condotta
del conte Turibaldo che cedendo alla sua impertinente curiosaggine
valicò per vanità le prescritte regole reali della sua missione.
Ebbene,
vengo a informarvi che con rescritto regio duodecimo emanato sin dal
primo anno di regno, sua maestà stabilì il tassativo divieto
d’usare nelle pubbliche adunanze titoli e nomi propri da parte dei convenuti
d’ogni rango. È inutile che si dia conto delle alte cagioni d’un
siffatto decreto, tanto è palmare ch’esso s’ispira a chiarissimi
principi di giustizia, talché coloro che sono ammessi al desco di sua Maestà son tutti parimenti suoi sudditi, ciò che
supera senz’altro ogni altro onore, sopendo ab imis ogni
tronfiaggine per ulteriori disdicevoli distinzioni personali.
In
fatto e in diritto ogni titolo nobiliare deriva sustanzialmente dalla
regalità, al cui cospetto, pur non cessando, si può ben dir che si sospenda, tornando ogni dignità alla grazia del largitore.
Del
resto gli attributi son predicati d’una sola sostanza che li emana
e li possiede. Ergo innanzi al re si torna ignudi di nomi propri e
titoli, mettendo conto declinare solo l’ufficio che si esercita,
ossia la propria funzione iscritta nel provvidenziale disegno regale.
Tanto
si doveva, affinché nulla abbia a turbare la vostra missione, nel rispetto dei
nostri costumi e delle nostre leggi, sicché or prendo congedo
fiducioso nel vostro acuminato acume, per nulla acusmatico, ma anzi matematico».
Rise
e sorrise, Azzone. Poi tornò nel letto e strinse a sé con nuovo vigore l'ombrosa e lucente Romilde.
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