Appresa
la felice notizia, lungamente attesa con trepidazione, della
pubblicazione del Meridiano che raccoglie tutte le opere di Vincenzo
Consolo, l'entusiasmo fu tale che non esitai a cinguettare il
lusinghiero giudizio che ne dà nell'introduzione al tomo Cesare
Segre, ossia che Vincenzo Consolo è «il maggiore scrittore italiano
della sua generazione».
Il
mio turgido orgoglio ebbe tuttavia la breve durata di un indugio,
poiché a stretto giro di cinguettio, l'amatissimo Apollonio Discolo
con garbo perfidissimo, se a guisa di rampogna o di memento resti per
ora indeciso, mi postava in risposta un suo serafico testo recante il
titolo Scherza coi santi...: Italo e Galileo, in cui egli
corrosivamente si faceva beffe d'un giudizio d'analogo turgore che
Italo Calvino nel 1967 aveva affidato alle pagine del Corriere della
Sera, onde Galileo era da considerarsi senz'altro «Il più grande
scrittore della letteratura italiana d'ogni secolo». Eccependo sul
metodo più che sul merito, Apollonio persuasivamente vi argomenta
che l'espressione «il più grande ...» sia mero feticcio
imbonitorio, da bandire per chiunque non voglia cedere ad un gioco
linguistico di mera propaganda, ché in verità «il più grande
scrittore, non solo della letteratura italiana ma di qualsiasi
letteratura, semplicemente non c'è».
Conoscevo
bene questo testo, del resto condividendone tono e ragioni
pienamente, solo che, non solo esso non mi aveva preservato
dall'adesione sperticata al giudizio di Cesare Segre, ma nemmeno mi
aveva ispirato la prudenza di evitarne almeno la propalazione.
Se non che l'aspra contraddizione nella quale la scepsi di Apollonio mi
sprofondava, come capita sempre quando l'alito dell'intelligenza ci
sfiora, anziché gettarmi nella costernazione, piuttosto, fecondamente, m'interrogava, oltre la misura delle mie modeste risorse, beninteso.
Nessuno
oserebbe dubitare del primato di Giovanni Verga a fronte di Luigi
Capuana, o di Francesco Petrarca a fronte delle multiformi frotte dei
petrarchisti; del pari pregevoli cose ha scritto Ottavio Rinuccini,
ma Tasso resta Tasso. Ora, al di là della triviale e ovvia
distinzione, si vuol chiedere altro; ossia, data l'esistenza di un
Canone letterario, storicamente determinato, siamo del tutto certi
che considerarlo un mero catalogo senza interna gerarchia non sia
solo un espediente per sfuggire al dovere critico di render condo
di quella gerarchia, che intanto tacitamente c'è,
incontrovertibilmente? Posto pure che l'indagine volta a determinare
i fondamenti di tale gerarchia sia destinata al perenne scacco, come ogni
indagine sui fondamenti, è più produttivo sottrarsene? O piuttosto
è più utile l'azzardo dell'interrogazione, pur nella consapevolezza
della precarietà e revocabilità delle risposte? La natura circolare
dell'interrogazione non è in ogni caso da preferire alla soddisfatta
pigrizia dell'acritico relativismo antigerarchico e alla boria del
dogmatismo canonico, del resto parimenti infondati?
La prosa letteraria di Vincenzo Consolo raggiunge un livello di
deautomazione linguistica tale da essere norma a se stessa, di qui la
capacità di raccontarci il mondo come se fosse un mondo nuovo,
sconosciuto, ignoto. Tale esito è raggiunto, peraltro, non già mediante infantili sperimentalismi di arbitraria rottura del codice, quanto in
virtù della mobilitazione delle infinite risorse del codice stesso,
altro che paludamenti manieristi.
La smisurata ricchezza lessicale ne diviene così tavolozza che sfuma o distingue con il vigore di un atto creativo; il sovrano dominio dell'architettura frastica ne rende la sintassi tessitura ritmica; donde la forma inaudita
del suo stile, esercitato con magistrale responsabilità.
Salpato
dal Catalogo delle navi, fa scalo presso i maggiori e i più grandi
dei minori, penso a Daniello Bartoli, si rituffa nel mare manzoniano,
con più complice gioia dei gorghi della colonna infame, e alla
lanterna della lezione di malumore plurilinguistico di Carlo Emilio
Gadda, longhianamente consapevole dell'uso gnoseologico della
metafora, distilla i suoi panni linguistici nell'alambicco magico di
Lucio Piccolo: ecco Vincenzo Consolo.
Ora,
dice Italo Calvino, «Sono convinto che scrivere
prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia, in entrambi
i casi è ricerca di un'espressione necessaria, unica, densa,
concisa, memorabile».
Nulla di più e nulla di meno può riferirsi
alla ricerca letteraria di Consolo.
Detto
ciò, letto e sottoscritto, tuttavia, prevedibilmente, mi coglie lo
sconforto e comincio a temere che la mia delirante enfasi abbia
annoiato Apollonio oltremodo, confermandone il sospetto, certo appena
il sospetto, circa il vasto armamentario della non innocente
stupidità dei Donnafugaschi (cfr. Nunzio La Fauci, Foglie di cactus,
Pisa 2000).
Del
resto, all'ironica generosità di Apollonio non può certo sfuggire
che l'olivo e l'olivastro, talvolta, si aggrovigliano nello stesso
inestricabile cespuglio.
A
conforto dei miei tre disperati lettori, onde risarcirne la ferita pazienza, mi pare ora doveroso trascrivere, in
calce, una pagina di Vincenzo Consolo che a me pare memorabile.
Seppellimento di Santa Lucia - Michelangelo Merisi da Caravaggio
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Effigiò
la santa come una luce che s'è spenta, una Lucia mutata in Euskìa,
un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a
terra, riversa la testa, un braccio divergente, avanti a donne in
lacrime, uomini dolenti, stretti, schiacciati contro la parete alta
della latomia, avanti alla corazza bruna del soldato, la mitria
biancastra, aperta a becco di cornacchia, del vescovo assolvente,
dietro le quinte dei corpi vigorosi e ottusi dei necrofori, cordari
delle cave o facchini del porto, che scavano la fossa. La luce su
Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall'amore dei fedeli
astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a
cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena.
Nel
sentimento della morte che ormai l'ha invaso e lo possiede,
Michelangelo è oltre la violenza, l'assassinio, è alla resa, alla
remissione, al ritorno ineluttabile, al cammino verso la notte
immota.
Un
brusio prima, indi un vocio confuso e concitato si levò nella chiesa
di Santa Lucia al Sepolcro al cadere del drappo che copriva il grande
quadro. Si scomposero, si mossero tutti di qua, di là, sembrarono le
teste creste sopra il mare sferzato all'improvviso dal grecale. Il
vescovo, nei solenni paramenti, si levò dal seggio d'oro sopra il
presbiterio, l'organo in cantorìa smise di sfiatare. Si levarono
dagli scranni i giurati del Senato, si levarono tutti fra le navate.
Il Minniti, accanto al Caravaggio, nel corno opposto al vescovo, fra
i canonici, i diaconi, i padri provinciali, si mise a tossire secco,
a sussultare, premette il muccatore sulla bocca.
Il
vescovo lento avanzò nel piviale bianco, nella mitria, nel pastorale
d'argento, si fermo avanti all'altare sfavillante di lampade, di
miriade di ceri. Parlò gravemente.
̶ La Santa nostra Lucia ci perdoni, perdoni la nostra stoltezza e il
nostro inganno. Noi non possiamo ora celebrare avanti a questo
scempio, a quei brutali ignudi incombenti sull'altare, al cadavere
reale della donna, a una santa priva di nimbo, a quello squarcio
sanguinoso sul suo collo, ai fedeli impiccioliti, al vescovo nascosto
…, non possiamo celebrare il santo sacrificio della Messa, non
possiamo benedire questo quadro. L'artista capisca e si studi
d'aggiustare …
Michelangelo,
il cappellaccio in mano, si portò avanti al vescovo, lo fissò muto,
il ghigno sulle labbra, s'inchinò, discese dal presbiterio, afferrò
per il braccio Martino e, percorsa insieme al paggio la navata, sortì
nella piazza vasta, nella luce del mattino.
Vincenzo Consolo, L'olivo e l'olivastro, Milano 1994.
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