Octavio Ocampo |
«Al lettore che preferisco, il quale
coltiva in segreto tutti i vizi dell'intelligenza contro i quali combatte; al
lettore ipocrita, mio simile e fratello offro qualcosa su cui meditare.»
Con queste enigmatiche parole, a guisa di presago
e provocatorio esergo, inizia la vasta e straordinaria opera di Enzo Melandri, La linea e il circolo.
Pubblicata dal Mulino nel 1968 e
ripubblicata meritoriamente da Quodlibet nel 2004, l'opera presenta non già
«una meditazione filosofica che approfondisce un unico tema» poiché, di contro,
essa costituisce «una disanima, digressiva e tendenzialmente esaustiva di un
vastissimo territorio, che finisce col coincidere con l'intero ambito della
problematica filosofica» (Giorgio Agamben).
La raffinata cultura filosofica italiana,
dall'accademia alla più ampia società dei dotti, ben oberata da gravissimi pensieri
deboli e ripensamenti neorealistici da far tremar le vene e i polsi, per non dire
di altre cagioni altrettanto esimenti, ha tributato a quest'opera di Enzo
Melandri un implacabile e ostinato silenzio.
E insomma, quando è troppo, è troppo!
Come
si può pretendere che la Linea possa assumere una curvatura tale da concludersi
in un Circolo?
Meglio ruminare perversamente nella
propria spettrale geometrica impotenza, signora mia; e che la conventio ad
excludendum continui, poiché non abbiamo il giusto spirito per questa ipocrisia
di cui ci sfugge il senso.
(Scuseranno i tre lettori ormai avvezzi a
concisi parerga se si richiama un'opera che tocca la dismisura di un migliaio
di pagine, del resto le più esigue e malcerte zattere servono proprio ad aiutare i naufraghi nel mare sterminato).
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