Carme
in distici sciolti alla memoria di Autone di Hammamet,
padre ignobile di
Silvio, detto Autino
Allor che il sol giunto fu
al ciglio
Lasciò ancor turbato il
suo giaciglio
E tenendo ancor le braghe
dissestate
Berciò sonoro parol
disordinate
Indi indossò camicia di
smunto vermiglio
E scese uggioso e superbo
giù nel baglio
Ove l’attendeva desta la
sua corte tutta
Giulivi valletti e ai
cesti tanta vaga frutta
Ch’egli afferrò senz’altro
riguardare
Divorando uva e banane
senza dire
Poi fragole, volle, mele e
ananasse
Mangiò tanto che tema
s’ebbe che subito scoppiasse
Poscia postosi al centro
della sua corte plaudente
Si liberò gaudente di
sterco assai copiosamente
Rapito dal piacer di
defecare
Niuno stimò degno di
pregiare
E volse pensamenti ai dì
felici
Quando ancor più potea
scaricar feci
Quando al cibar si
dedicava
Né altra speme o miglior
destin per sé voleva
Se non desinare et
evacuare immantinente
Onde poter moltiplicare il
ciclo appassionante
Tuonò infine un peto
dirompente
Tale da stordir financo a
un dio la mente
Ma esso fu l’agognato
segnale
Che giunta la cacata era
al finale
Or che infine l’agio era
raggiunto
Volle latte terso e bianco
appena munto
- di capra – strepitò
all’accorso pastorello
e bevve più o meno come un
gran cammello
Miele e caffè gradiva
eziandio
Ma riebbe tosto alla
pancia un mormorio
Sicché l’appena terminato
rito
Fu rinnovellato non lungi
dal precedente sito
L’aere del baglio infin
colmo di lezzo
Pare che al divo non fosse
di sollazzo
Onde un valletto ei
rampognò fremente
Facendolo cagion dell’aria
fetente
E che si lavasse prima
d’accostare Autone
Il qual non tollerava quel
puzzo di montone
Il servidor ne fu molto
turbato
Stimandosi senza colpa
ingiurïato
Non sol pria del tutto
affumicato
Ma poi senza giustizia
apostrofato
È triste il vivere del
pover servidore
Quando un signor comanda
senza onore
Alfine Autone si riscosse
dal monte orripilante
E chiesto ai servi se ‘l
suo deretano fosse netto idoneamente
S’apprestò adunque a
cominciare il giorno,
e
come suo costume pria volse la testa lentamente intorno
Scrutò con tedio il
barbaro orizzonte
Riarso a manca e a dritta
liquescente
Quinci scorse nel cielo
uno stormo sciamare
Nel bel settentrione
diretto a dimorare
S’annuvolo tosto d’ira e
amara nostalgia
Per rimembranza acerba di
sua terra natia
Lui esule, negletto e pur
sbandito
E ‘l suo codazzo turpe
riverito
«Ah se vorrei tornar con
l’ascia più tagliente
Farei cibo per porci di tutta
quella gente
Perfidi e marrani, infami
e anco codardi
Quant’io fui astro carco
di luminosi dardi
Regga il furore
all’avverso destino
Orbato sì di gloria, ma
non a capo chino»
Saliva intanto in cielo il
sol del mezzogiorno
mirò e poi volse il capo, più
pigramente intorno
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