martedì 6 novembre 2012

Autone di Hammamet


Carme in distici sciolti alla memoria di Autone di Hammamet,
padre ignobile di Silvio, detto Autino

Allor che il sol giunto fu al ciglio
Lasciò ancor turbato il suo giaciglio

E tenendo ancor le braghe dissestate
Berciò sonoro parol disordinate

Indi indossò camicia di smunto vermiglio
E scese uggioso e superbo giù nel baglio

Ove l’attendeva desta la sua corte tutta
Giulivi valletti e ai cesti tanta vaga frutta

Ch’egli afferrò senz’altro riguardare
Divorando uva e banane senza dire

Poi fragole, volle, mele e ananasse
Mangiò tanto che tema s’ebbe che subito scoppiasse

Poscia postosi al centro della sua corte plaudente
Si liberò gaudente di sterco assai copiosamente

Rapito dal piacer di defecare
Niuno stimò degno di pregiare

E volse pensamenti ai dì felici
Quando ancor più potea scaricar feci

Quando al cibar si dedicava
Né altra speme o miglior destin per sé voleva

Se non desinare et evacuare immantinente
Onde poter moltiplicare il ciclo appassionante

Tuonò infine un peto dirompente
Tale da stordir financo a un dio la mente

Ma esso fu l’agognato segnale
Che giunta la cacata era al finale

Or che infine l’agio era raggiunto
Volle latte terso e bianco appena munto

- di capra – strepitò all’accorso pastorello
e bevve più o meno come un gran cammello

Miele e caffè gradiva eziandio
Ma riebbe tosto alla pancia un mormorio

Sicché l’appena terminato rito
Fu rinnovellato non lungi dal precedente sito

L’aere del baglio infin colmo di lezzo
Pare che al divo non fosse di sollazzo

Onde un valletto ei rampognò fremente
Facendolo cagion dell’aria fetente

E che si lavasse prima d’accostare Autone
Il qual non tollerava quel puzzo di montone

Il servidor ne fu molto turbato
Stimandosi senza colpa ingiurïato

Non sol pria del tutto affumicato
Ma poi senza giustizia apostrofato

È triste il vivere del pover servidore
Quando un signor comanda senza onore

Alfine Autone si riscosse dal monte orripilante
E chiesto ai servi se ‘l suo deretano fosse netto idoneamente

S’apprestò adunque a cominciare il giorno,
e come suo costume pria volse la testa lentamente intorno

Scrutò con tedio il barbaro orizzonte
Riarso a manca e a dritta liquescente

Quinci scorse nel cielo uno stormo sciamare
Nel bel settentrione diretto a dimorare

S’annuvolo tosto d’ira e amara nostalgia
Per rimembranza acerba di sua terra natia

Lui esule, negletto e pur sbandito
E ‘l suo codazzo turpe riverito

«Ah se vorrei tornar con l’ascia più tagliente
Farei cibo per porci di tutta quella gente

Perfidi e marrani, infami e anco codardi
Quant’io fui astro carco di luminosi dardi

Regga il furore all’avverso destino
Orbato sì di gloria, ma non a capo chino»

Saliva intanto in cielo il sol del mezzogiorno
mirò e poi volse il capo, più pigramente intorno

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