Sparsa di
frecce turgide
sul
corazzato petto,
drizza le
palme, e rorida
di morte il
bianco aspetto,
mostra il
diton mediano
bisbetica e
furiosa.
Cessi il
tormento: unanime
s'innalza
una preghiera:
smetti lo
strepito
zelante e
pernicioso,
sulla
pupilla arcigna
cali
l'estremo vel.
Sgombra, o
gentil, dall'ansia
de’ tuoi
pedestri ardori,
leva
all'Eterno un rabido
pensier
d'offerta, e taci.
O almen
corri precipite
a quel paese
tosto.
Gli spilli
dei tuoi tacchi
sgonfin la
cornamusa,
rendi
l’oblio al meschino
liberaci dal
mal.
Ebbra del
nanerottolo
da tue
labbra argentee
schiuma arcoreo
mestruo,
incontinente
e garrula,
presta e
fedele al sir,
quanto un
carabinier.
Ahi, nelle
insonni tenebre,
pei claustri
miliardari,
tra il ballo
delle vergini
sui
supplicati altari,
sempre al
pensier tornavano
gl'irrevocati
dì.
Quando ancor
fresca, improvvida
d'un avvenir
mal fido,
vaga spirò
le viscide
aure del
cuneese lido,
e tra le
sgallettate
l’uno se la
strappò.
Ma sciolte
le sue redini
di nero crin
gemmata
all’altro la
ridiè riverginata.
Sbandossi
collo spione
aiutolla il marpione
rozzo malnato
e Ceo
che la
condusse a dio.
Il dio
vastaso e frale
Lei volle
orizzontale,
ma sua
alterezza stubida
condusse al
gran rifiuto:
sol ritta
ella si stava, nevver,
nevver. Nevero?
«Per mero
duol di schiena»
Er Pecora
chiosò.
Poscia fu
dubbio amletico
se darla o
se non darla,
ma infin
risolse intrepida
che gloria
ben valea
dar via la
sua ninfea.
Non più
donzella alfine,
guldrappa
d’oro fino
omai sol era
scrigno
di gioie
spaiate e trine.
Ma il
richiomato sir
seco rivolle
tosto
la
rifascistata etèra
vieppiù
idrofoba e fiera,
latrante e
furiosa,
fumante e
crepitante,
irrefrenabil
veltro
con zanne
affilatissime
e labbra
sottilissime,
pronta a
sbranar nemici,
cieca a ogni
evidenza,
sempre a Lui
coronare
con furia da
comare.
E dietro a
lei la muta
de' cortigian
schiumanti
e lo
sbandarsi, e il rapido
redir da
veltri ansanti,
correvano tenaci
al suon
della sua voce
di lavandaia
truce.
Allor che lo
stral colpì
il regio e
sovrano cor
la tenera affranta
e attonita
a tutti il
volto
volgea
repente, pallida
d'orribile
furor.
Oh gnocca
errante! Oh tepidi
lavacri
d'Arcoreano!
Ove, deposta
l'orrida
maglia, il
guerrier sovrano
scendea dal
campo a tergere
il nobile
sudor.
Per allegrar
il cor ai placidi
gaudii di
nuovi amor.
Che fé di
mal? Che fé il grand'uomo?
Son solo mondani
ardori
ricerca del
refrigerio
d'una parola
amica.
Ovver d’un
po’ di f.
Fallace e
mostruosa onta:
«Son
testimon io stessa
a Lui
indarno fidanzata
pel picciol
brando gracile,
fresca negli
arsi talami
lasciommi et
illibata,
manco
rugiada al cespite
giungea poi
ch’era estinta al fonte.
Né più virtù
d'amor potea
resurrezion
mostrare».
Ma Er Pecora
sibilante,
brutto
tracagno e rio,
disse che a
letto con su’ nonna,
son tutti
padrepio.
Qual vampa paonazza
alle parol
del ratto,
l'orror
l'anima assale.
Indi vola
alla specola
il volto a
riguardare, poi
seno, anche
e pudenda.
Ma le
rispecchiate immagini
reser più
acuto il mal:
sol atrii
muscosi e fori cadenti,
sol boschi e
omai spente fucine stridenti
e solchi
ragnati d’orrendo sudor.
E il seno
disperso che più non si desta!
Con tremito
acceso levò su la testa,
percossa da
tanto crescente dolor,
dimenticò il
nano e fuggi dal dottor.
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