sabato 4 giugno 2022

Tra Citera e Donnafugata

Piero Guccione, Mare a Punta Corvo, 1995-2000


Molte persone, sempre più di frequente, mostrano di stracciarsi le vesti e il crine in elogi sperticati ed altre laudatorie litanie, invero pelosissime, rivolte ai cari estinti, mentre verso i viventi in salute, fiorente o malferma, spesso tributi pur doverosi sono lesinati appena, talora per decenza, talaltra per circostanze assai meno commendevoli. Capita sovente di sentire lamenti di questo tenore: «Ah se solo ora potessi, quante cose avrei da dirti caro papà, o caro amico, o cara la mia sposa, o caro maestro». Sfugge la ragione per cui questi dolenti inconsolabili non abbiano trovato il tempo di manifestare i sensi di cotanto amore quando i beneficiari, ancor viventi, avrebbero potuto prestarvi un orecchio palpitante ed eventualmente grato.

Contro tale malaccorto e patetico andazzo, mi sono dato la regola di dire subito, ora e qui, tutto il bene possibile alle persone a me care, ovvero stimabili per il loro certo valore.

A cagione di una malmostosa diffidenza verso linguisti, semiologi e grammatici, ispirata dai miei perniciosi pregiudizi permeati della boria delirante dei miei studi filosofici, ho scoperto assai tardi l'affilatissimo genio di Apollonio Discolo, nom de plume che per celia cela il professor Nunzio La Fauci. Certo, leggevi Saussure o Benveniste e pochi altri, e si schiudevano mondi, ma tolti i maestri, la deriva degli officianti chini su una scolastica corriva, mi recava il disagio di un pensiero ingenuo e dogmatico, tale da destare grevi imbarazzi al pari di una peperonata. Poi per un caso fortunatissimo cominciai a leggere gli scritti e le opere di Nunzio La Fauci con un crescente interesse dapprima, presto divenuto grande considerazione, per tramutarsi infine in ammirazione devota.

In questo tempo sempre sul punto di sfarsi in mille rivoli di cieca stoltezza e tracotanza sbilenca, dominato dalla tirannide asfissiante d’una incessante chiacchiera, nel trionfante spaccio di asinerie ragliate e apoftegmi latrati in preda a fumi etilici, onde si fanno ostie da raffermo smegma, la frequentazione della sua radicale razionalità militante ha nutrito il mio spirito, generosamente. Tanto più che la sua scepsi è costantemente accompagnata da burbera pietas, gaia malevolenza, malumore euristico, sgomento caustico, irritazione paziente e letizia ironica. L’intreccio virtuoso di passione e disincanto, infatti, rende magistrale la sua lezione, arricchita da una lingua non comune, retta da una precisione lessicale tagliente che si distende in un movimento sintattico flessuoso, dove una ipotassi preziosa sorregge arcate luminose e sincopate, che a me ricordano l’articolazione frastica di Ravel. Quando poi egli esercita il genere aforistico, ottiene per sottrazione una flagranza screziata e brillante. Così attingendo vertici di stile in cui pulsa la ricerca costante di una densità espressiva lussuosa, a un tempo scabra e opulenta.

E tuttavia la stima per la qualità rarissima dei suoi talenti molteplici, non ha del resto mai esaurito il mio entusiasmo, a causa di un ulteriore sospetto felicemente arbitrario.

Vladimir Nabokov ne Il dono, raccontando del mirabile esploratore Konstantin Godunov-Cerdyncev, lo descrive come un uomo che forse «sapeva due o tre cose che nessun altro sapeva». Analogo sospetto m’ispira Nunzio La Fauci, ossia che egli sia un esploratore di parole e lingue, segni, testi e contesti, che non teme  i sentieri più incerti e ardui perché sa due o tre cose che nessun altro sa. E se anche questo sapere fosse semplice coscienza dei limiti d’ogni sapere, la sua lezione sarebbe parimenti illuminata, poiché, come scriveva Antonio Machado, «sono le tue orme / il sentiero e niente più; / viaggiatore, non esiste il sentiero, / il sentiero si apre camminando.»