domenica 24 settembre 2017

Le siepi galeotte








«"No, don Calogero, no. Mio nipote è diventato pazzo... [...] pazzo di amore per vostra figlia, don Calogero; e me lo ha scritto ieri."
Il sindaco conservò una sorprendente equanimità; sorrise e si diede a scrutare il nastro del proprio cappello; Padre Pirrone aveva gli occhi rivolti al soffitto come se fosse un capomastro incaricato di saggiarne la solidità. Don Fabrizio rimase male; quelle taciturnità congiunte gli sottraevano anche la minima soddisfazione di aver stupefatto gli ascoltatori. Fu quindi con sollievo che si accorse che don Calogero stava per parlare.
"Lo sapevo, Eccellenza, lo sapevo. Sono stati visti baciarsi Martedì 25 settembre, la vigilia della partenza di don Tancredi; nel vostro giardino, vicino alla fontana. Le siepi di alloro non sempre sono fitte come si crede."»

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo


In un recente saggio* di rara acutezza, con il consueto rigore disincantato e brillante, sostiene Nunzio La Fauci che prendere «Il Gattopardo come opera-manifesto di un pensiero e di un’ideologia politica o anche solo culturale e letteraria che considerano apparente il divenire o, peggio, che ritengono pragmaticamente possibile una sua addomesticata gestione, ai fini di una sostanziale conservazione, più che un paradosso testuale è, come si diceva, una consolidata falsificazione.» Se non che, da questa tramandata ricezione critica, segnata da sesquipedali fraintendimenti e clamorose incomprensioni tutt’altro che ingenue, è pur sortita, in qualche modo, una sedimentazione nella lingua comune di parole con significati di cui nel romanzo non v’è traccia: «L’idea che il gattopardo che circola in italiano da più di cinquant’anni trovi fondamento nel Gattopardo è esito di letture scorciate e sommarie. Solo benevolmente essa può essere inoltre definita un malinteso. A uno sguardo equanime, invece, appare per ciò che fu e rimane: un tentativo aperto e, bisogna ammettere, molto ben riuscito di operante falsificazione.»
Nel solco di questa linea critica, per una approssimazione ad una più retta lettura del romanzo, gioverebbe, forse, riconoscere un valore diegetico di ben altro rilievo alla visita di don Calogero Sedara, che offre l’occasione per l’odierno #diconodioggi, nel corso della quale don Fabrizio, ingoiando rospi ma con complice adesione alla «avventura rapace e predatoria» dell’amato nipote, annuncia la richiesta di matrimonio per Angelica, combinando le future nozze con le quali lo squattrinato e cinico Tancredi non esita a «barattare assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri con avvenenze e sostanze altrui».
Il matrimonio del Principe di Falconeri con la nipote di Peppe ’Mmerda, costituisce una sorta di esemplare scaturigine della multiforme prole di sciacalletti e iene, che sostituiranno i Gattopardi, confermando la profezia appassionata e rabbiosa di don Ciccio Tumeo: «"Questa, Eccellenza, è una porcheria. Un nipote, quasi un figlio vostro, non doveva sposare la figlia di quelli che sono i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come credevo io, era un atto di conquista; così è una resa senza condizioni, è la fine dei Falconeri, e anche dei Salina"».
Ciò che semanticamente nutre il nome gattopardo e l’aggettivo gattopardesco, se proprio si fosse costretti a legarli al romanzo, in effetti, trova radici pertinenti piuttosto nella parabola di Tancredi che, pur «nell’ambito di secolari consuetudini», salda nel cinismo del cambiamento apparente finalizzato a conservare i propri privilegi, la vecchia aristocrazia esangue con la rampante borghesia delle lupare, che ne aveva scalzato il dominio a mezzo delle più spregiudicate rapine.
Di contro, il Gattopardo, ossia don Fabrizio, è tutt’altro che un gattopardo, poiché, con ogni evidenza, il Principe incarna il disilluso declino irreversibile, storico e morale, d’una tradizione aristocratica di cui egli morente comprende d’essere il punto finale: «Era inutile sforzarsi a credere il contrario, l’ultimo Salina era lui, il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo».
Ora, pur nella rassegnata consapevolezza che gli usi d’una lingua sono assai difficilmente contrastabili, nondimeno, pare meno illusorio, forse, formulare auspici che contributi quali quello di Nunzio La Fauci, che vivamente si raccomanda, possano, se non ribaltare, almeno arginare una vulgata critica consolidata, spesso destituita d’ogni fondamento testuale.
Del resto, per i lettori, al di là d’ogni disputa, Il Gattopardo resterà quel che è sempre stato, ossia un avventuroso e affascinante viaggio in Sicilia, come sostiene, con felice intuizione, il chiarissimo professor La Fauci.


*Nunzio La Fauci - Giuseppe Tomasi di Lampedusa. “Finché c’è morte, c’è speranza”

Nessun commento:

Posta un commento