«"No, don
Calogero, no. Mio nipote è diventato pazzo... [...] pazzo di amore per vostra
figlia, don Calogero; e me lo ha scritto ieri."
Il sindaco conservò
una sorprendente equanimità; sorrise e si diede a scrutare il nastro del
proprio cappello; Padre Pirrone aveva gli occhi rivolti al soffitto come se
fosse un capomastro incaricato di saggiarne la solidità. Don Fabrizio rimase
male; quelle taciturnità congiunte gli sottraevano anche la minima
soddisfazione di aver stupefatto gli ascoltatori. Fu quindi con sollievo che si
accorse che don Calogero stava per parlare.
"Lo sapevo,
Eccellenza, lo sapevo. Sono stati visti baciarsi Martedì 25 settembre, la
vigilia della partenza di don Tancredi; nel vostro giardino, vicino alla
fontana. Le siepi di alloro non sempre sono fitte come si crede."»
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo
In un recente saggio* di rara acutezza, con il consueto rigore disincantato
e brillante, sostiene Nunzio La Fauci che prendere «Il Gattopardo
come opera-manifesto di un pensiero e di un’ideologia politica o anche solo
culturale e letteraria che considerano apparente il divenire o, peggio, che
ritengono pragmaticamente possibile una sua addomesticata gestione, ai fini di
una sostanziale conservazione, più che un paradosso testuale è, come si diceva,
una consolidata falsificazione.» Se non che, da questa tramandata ricezione
critica, segnata da sesquipedali fraintendimenti e clamorose incomprensioni
tutt’altro che ingenue, è pur sortita, in qualche modo, una sedimentazione
nella lingua comune di parole con significati di cui nel romanzo non v’è
traccia: «L’idea che il gattopardo
che circola in italiano da più di cinquant’anni trovi fondamento nel Gattopardo è
esito di letture scorciate e sommarie. Solo benevolmente essa può essere
inoltre definita un malinteso. A uno sguardo equanime, invece, appare per ciò
che fu e rimane: un tentativo aperto e, bisogna ammettere, molto ben riuscito
di operante falsificazione.»
Nel solco di questa linea critica, per una approssimazione ad
una più retta lettura del romanzo, gioverebbe, forse, riconoscere un valore
diegetico di ben altro rilievo alla visita
di don Calogero Sedara, che offre l’occasione per l’odierno #diconodioggi, nel
corso della quale don Fabrizio, ingoiando rospi ma con complice adesione alla
«avventura rapace e predatoria» dell’amato nipote, annuncia la richiesta di
matrimonio per Angelica, combinando le future nozze con le quali lo
squattrinato e cinico Tancredi non esita a «barattare assai vantaggiosamente
sorrisi e titoli propri con avvenenze e sostanze altrui».
Il matrimonio del Principe di Falconeri con la nipote di
Peppe ’Mmerda, costituisce una sorta di esemplare scaturigine della multiforme
prole di sciacalletti e iene, che sostituiranno i Gattopardi, confermando la profezia appassionata
e rabbiosa di don Ciccio Tumeo: «"Questa, Eccellenza, è una porcheria. Un
nipote, quasi un figlio vostro, non doveva sposare la figlia di quelli che sono
i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come
credevo io, era un atto di conquista; così è una resa senza condizioni, è la
fine dei Falconeri, e anche dei Salina"».
Ciò che semanticamente nutre il nome gattopardo e l’aggettivo
gattopardesco, se proprio si fosse costretti a legarli al romanzo, in effetti,
trova radici pertinenti piuttosto nella parabola di Tancredi che, pur
«nell’ambito di secolari consuetudini», salda nel cinismo del cambiamento
apparente finalizzato a conservare i propri privilegi, la vecchia aristocrazia
esangue con la rampante borghesia delle lupare, che ne aveva scalzato il
dominio a mezzo delle più spregiudicate rapine.
Di contro, il Gattopardo, ossia don Fabrizio, è tutt’altro
che un gattopardo, poiché, con ogni
evidenza, il Principe incarna il disilluso declino irreversibile, storico e morale, d’una
tradizione aristocratica di cui egli morente comprende d’essere il punto
finale: «Era inutile sforzarsi a credere il contrario, l’ultimo Salina era lui,
il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo».
Ora, pur nella rassegnata consapevolezza che gli usi d’una
lingua sono assai difficilmente contrastabili, nondimeno, pare meno illusorio,
forse, formulare auspici che contributi quali quello di Nunzio La Fauci, che
vivamente si raccomanda, possano, se non ribaltare, almeno arginare una vulgata
critica consolidata, spesso destituita d’ogni fondamento testuale.
Del resto, per i lettori, al di là d’ogni disputa, Il Gattopardo resterà quel che è sempre
stato, ossia un avventuroso e affascinante viaggio
in Sicilia, come sostiene, con felice intuizione, il chiarissimo professor
La Fauci.
*Nunzio La Fauci - Giuseppe Tomasi di Lampedusa. “Finché c’è morte,
c’è speranza”
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