domenica 14 aprile 2019

Gran Dio, morir sì giovane



























Negli eventi del secondo decennio del Novecento si consumò la catastrofe dell'Europa; adesso, dopo un secolo, quasi negli stessi anni, sebbene in altre forme, analoghe pulsioni autodistruttive annunciano una ineluttabile nuova catastrofe europea. Un grande romanzo, Rubè di Giuseppe Antonio Borgese, narrando quegli anni terribili del Novecento, seppe cogliere il nesso inestricabile tra politica e psicologia, consistente nella solidale specularità della nevrosi individuale con la crisi politica che portò alla guerra e poi ai fascismi.
Eppure, come se «un vento ingiusto l’abbia soffiato via dalla nostra letteratura» (Guido Piovene), Rubè (1921) è finito negli scaffali più inaccessibili delle biblioteche di oggidì, forse a causa di una sorte critica pervicacemente contrastata e ostile che gli ha negato il rilievo letterario che merita, non solo e non tanto perché Rubè avvia la stagione del romanzo del Novecento, ma perché la nevrosi nichilista di Filippo Rubè ha la stessa sostanza della rottura pirandelliana del soggetto da Vitangelo Moscarda di Uno nessuno e centomila a Mattia Pascal.
«Abbiamo le mani senza calli e coi tendini fiacchi; non sappiamo stringere né una vanga né una spada; e sappiamo stringere solo il vuoto», confessa Filippo Rubè, consapevole di non poter sfuggire al suo destino, malgrado l’amore devoto e necessario di Eugenia Berti e l’amore felice e contingente di Celestina Lambert. Il fascino perverso della violenza e il mito effimero della guerra, la contiguità e il disprezzo del fascismo nascente, l’ossessione della purezza in stridente contrasto con una realtà limacciosa di compromessi, sono le componenti della personalità di Filippo Rubè, la cui ambiguità inevitabile è sempre crogiolo vivo di una innocenza colpevole, come il «rivo strozzato che gorgoglia».

«Siccome non erano nemmeno le cinque, Filippo prese le vie più lunghe per arrivare alla stazione. Gli piacque vedere il cielo esausto colorarsi. L’aurora era nuda di nubi. A volte, nei crocicchi più deserti, le rondini gli volarono accosto, quasi senza timore, ed egli ne sorrise. Milano non gli era mai sembrata bella. Quella mattina sì. Certo non cera altra città in Italia che somigliasse tanto a Parigi. Gli alberi erano immobili in fondo ai cortili, e le facciate ridevano alla luce senza aprire gli occhi. La domenica di aprile aveva un lungo dormire, e le finestre restavano quasi tutte chiuse. Se una, a un ultimo piano, s’apriva con un vivace sbattere di persiane contro il muro, quell’inizio di vita diurna aveva una festosità d’inaugurazione, e veniva voglia di gettare a mezza voce un buon giorno allinquilino. Egli andava senza pensieri, pieno di un sonno dolce e prorogabile.»

Giuseppe Antonio Borgese, Rubè, Milano, Mondadori 1994, p. 235 

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