mercoledì 5 febbraio 2020

I fiori di Leibniz

Ph. Alexander Petrosyan


















In un tempo in cui Twitter non era ancora una barbara prateria di furiose mandrie contrapposte in fazioni stivalute e mascellute, di inani narcisismi postribolari e miasmi maleodoranti di maramaldi maleadoranti, nonché di balcanizzati ovili dell’algoritmo prezzolato, bestiali camorre mistificanti e garrule plebi grulle, capitava di scoprire, giocando, persone meravigliose che celatissime nella riservatezza di un nom de plume, generosamente condividevano il loro molteplice e variopinto ingegno.
In particolare, un nom de plume floreale e scespiriano, per vastità di conoscenze e sfolgorante acutezza d'intelletto, suscitava, circa la sua primaria identità, un rovello discreto, mai trasceso in volgare curiosità, e nondimeno pertinace e affascinante come uno splendido enigma. Poi un giorno, or sono tre anni, mi illusi di essere venuto a capo del mistero, persuadendomi parimenti del dovere di tacerne senz’altro la soluzione, ma avvertendo tuttavia il personale obbligo di rendere un grato tributo alla bellezza dei fiori di Leibniz che segnando ardui sentieri, pur nelloscurità simile a fosca notte, possono ancora condurre a Damasco.

Misteriose e impervie sono le vie della conoscenza. E tali, una volta percorse, da fornire prove dolorose del nostro attonito e sciagurato ottundimento, che sovente preclude una retta comprensione del resto lampante.
Il primo marzo duemiladiciassette compitando I principi della filosofia o Monadologia, ossia, per i permalosi, Principia philosophiae more geometrico demonstrata di Gottfried Wilhelm Leibniz, sul punto di rimeditare la fondamentale tesi numero nove, ove è formulato il principio dell’identità degli indiscernibili, un lampo fiorisce improvviso sulle celeberrime parole del grande filosofo tedesco: «Bisogna ammettere che ogni monade sia differente da ogni altra. In natura, infatti, non vi sono mai due esseri che siano perfettamente l’uno come l’altro e nei quali non sia possibile trovare una differenza interna o fondata su una denominazione intrinseca.» Ergo due enti identici sono, in realtà, un solo ente. Ne discende che due persone caratterizzate dalla medesima genialità, sono in realtà la stessa persona geniale. Certo, qualcuno potrebbe eccepire che Leibniz non c’entri nulla, derubricando la mia scoperta all’uso grossolano di paradigmi indiziari da Sherlock Holmes a Dupin, concedendo i più generosi piuttosto un’inferenza abduttiva peirceana, ovvero i più malevoli un triviale colpo - come dire? - deretaneo. Può darsi. E tuttavia posso testimoniare senza tema di smentita, con assoluta certezza oggettiva e psicologica, e al di là di ogni controversia logica e ontologica, che la scoperta de qua è stata indotta dalle citate parole della Legge di Leibniz, al quale devo ora gratitudine sconfinata per avermi svelato un enigma bellissimo. Raggiunta codesta fanciullesca gioia per la quale ho piroettato felice per ore nel nirvana pneumatico dei solutori d’enigmi, verso la persona che ha ordito un così brillante inganno è ancor più cresciuta l’ammirazione, poiché moltiplicandosi grazie al suo multiforme ingegno, mi ha concesso il privilegio d’amarla due volte, a sua insaputa, si capisce. Tale ammirazione, del resto, mi obbliga all’osservanza di un silenzio pitagorico nel quale riporre gelosamente la mia felice scoperta, sul fondamento di un altro essenziale principio leibniziano, quello di ragion sufficiente, ossia nihil est sine ratione: se una identità, ancorché gemellare e immaginaria, pur tuttavia esiste, essa avrà una sua ragion sufficiente e come tale merita ogni cura di riservatezza premurosa e complice, al pari dell’identità primaria.
Se per contro, essa scoperta fosse un sogno arbitrario e infondato, potrei in ogni caso imputarne la cagione alle fumisterie della metafisica di Leibniz, tanto affascinante quanto ingannevole e fallace. Forse.






Nessun commento:

Posta un commento