sabato 7 febbraio 2015

Amori difficili

Appresa la felice notizia, lungamente attesa con trepidazione, della pubblicazione del Meridiano che raccoglie tutte le opere di Vincenzo Consolo, l'entusiasmo fu tale che non esitai a cinguettare il lusinghiero giudizio che ne dà nell'introduzione al tomo Cesare Segre, ossia che Vincenzo Consolo è «il maggiore scrittore italiano della sua generazione».
Il mio turgido orgoglio ebbe tuttavia la breve durata di un indugio, poiché a stretto giro di cinguettio, l'amatissimo Apollonio Discolo con garbo perfidissimo, se a guisa di rampogna o di memento resti per ora indeciso, mi postava in risposta un suo serafico testo recante il titolo Scherza coi santi...: Italo e Galileo, in cui egli corrosivamente si faceva beffe d'un giudizio d'analogo turgore che Italo Calvino nel 1967 aveva affidato alle pagine del Corriere della Sera, onde Galileo era da considerarsi senz'altro «Il più grande scrittore della letteratura italiana d'ogni secolo». Eccependo sul metodo più che sul merito, Apollonio persuasivamente vi argomenta che l'espressione «il più grande ...» sia mero feticcio imbonitorio, da bandire per chiunque non voglia cedere ad un gioco linguistico di mera propaganda, ché in verità «il più grande scrittore, non solo della letteratura italiana ma di qualsiasi letteratura, semplicemente non c'è».
Conoscevo bene questo testo, del resto condividendone tono e ragioni pienamente, solo che, non solo esso non mi aveva preservato dall'adesione sperticata al giudizio di Cesare Segre, ma nemmeno mi aveva ispirato la prudenza di evitarne almeno la propalazione.
Se non che l'aspra contraddizione nella quale la scepsi di Apollonio mi sprofondava, come capita sempre quando l'alito dell'intelligenza ci sfiora, anziché gettarmi nella costernazione, piuttosto, fecondamente, m'interrogava, oltre la misura delle mie modeste risorse, beninteso.
Nessuno oserebbe dubitare del primato di Giovanni Verga a fronte di Luigi Capuana, o di Francesco Petrarca a fronte delle multiformi frotte dei petrarchisti; del pari pregevoli cose ha scritto Ottavio Rinuccini, ma Tasso resta Tasso. Ora, al di là della triviale e ovvia distinzione, si vuol chiedere altro; ossia, data l'esistenza di un Canone letterario, storicamente determinato, siamo del tutto certi che considerarlo un mero catalogo senza interna gerarchia non sia solo un espediente per sfuggire al dovere critico di render condo di quella gerarchia, che intanto tacitamente c'è, incontrovertibilmente? Posto pure che l'indagine volta a determinare i fondamenti di tale gerarchia sia destinata al perenne scacco, come ogni indagine sui fondamenti, è più produttivo sottrarsene? O piuttosto è più utile l'azzardo dell'interrogazione, pur nella consapevolezza della precarietà e revocabilità delle risposte? La natura circolare dell'interrogazione non è in ogni caso da preferire alla soddisfatta pigrizia dell'acritico relativismo antigerarchico e alla boria del dogmatismo canonico, del resto parimenti infondati?
La prosa letteraria di Vincenzo Consolo raggiunge un livello di deautomazione linguistica tale da essere norma a se stessa, di qui la capacità di raccontarci il mondo come se fosse un mondo nuovo, sconosciuto, ignoto. Tale esito è raggiunto, peraltro, non già mediante infantili sperimentalismi di arbitraria rottura del codice, quanto in virtù della mobilitazione delle infinite risorse del codice stesso, altro che paludamenti manieristi.
La smisurata ricchezza lessicale ne diviene così tavolozza che sfuma o distingue con il vigore di un atto creativo; il sovrano dominio dell'architettura frastica ne rende la sintassi tessitura ritmica; donde la forma inaudita del suo stile, esercitato con magistrale responsabilità.
Salpato dal Catalogo delle navi, fa scalo presso i maggiori e i più grandi dei minori, penso a Daniello Bartoli, si rituffa nel mare manzoniano, con più complice gioia dei gorghi della colonna infame, e alla lanterna della lezione di malumore plurilinguistico di Carlo Emilio Gadda, longhianamente consapevole dell'uso gnoseologico della metafora, distilla i suoi panni linguistici nell'alambicco magico di Lucio Piccolo: ecco Vincenzo Consolo.
Ora, dice Italo Calvino, «Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia, in entrambi i casi è ricerca di un'espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile».
Nulla di più e nulla di meno può riferirsi alla ricerca letteraria di Consolo.
Detto ciò, letto e sottoscritto, tuttavia, prevedibilmente, mi coglie lo sconforto e comincio a temere che la mia delirante enfasi abbia annoiato Apollonio oltremodo, confermandone il sospetto, certo appena il sospetto, circa il vasto armamentario della non innocente stupidità dei Donnafugaschi (cfr. Nunzio La Fauci, Foglie di cactus, Pisa 2000).
Del resto, all'ironica generosità di Apollonio non può certo sfuggire che l'olivo e l'olivastro, talvolta, si aggrovigliano nello stesso inestricabile cespuglio.


A conforto dei miei tre disperati lettori, onde risarcirne la ferita pazienza, mi pare ora doveroso trascrivere, in calce, una pagina di Vincenzo Consolo che a me pare memorabile.

Seppellimento di Santa Lucia - Michelangelo Merisi da Caravaggio

Effigiò la santa come una luce che s'è spenta, una Lucia mutata in Euskìa, un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a terra, riversa la testa, un braccio divergente, avanti a donne in lacrime, uomini dolenti, stretti, schiacciati contro la parete alta della latomia, avanti alla corazza bruna del soldato, la mitria biancastra, aperta a becco di cornacchia, del vescovo assolvente, dietro le quinte dei corpi vigorosi e ottusi dei necrofori, cordari delle cave o facchini del porto, che scavano la fossa. La luce su Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall'amore dei fedeli astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena.
Nel sentimento della morte che ormai l'ha invaso e lo possiede, Michelangelo è oltre la violenza, l'assassinio, è alla resa, alla remissione, al ritorno ineluttabile, al cammino verso la notte immota.
Un brusio prima, indi un vocio confuso e concitato si levò nella chiesa di Santa Lucia al Sepolcro al cadere del drappo che copriva il grande quadro. Si scomposero, si mossero tutti di qua, di là, sembrarono le teste creste sopra il mare sferzato all'improvviso dal grecale. Il vescovo, nei solenni paramenti, si levò dal seggio d'oro sopra il presbiterio, l'organo in cantorìa smise di sfiatare. Si levarono dagli scranni i giurati del Senato, si levarono tutti fra le navate. Il Minniti, accanto al Caravaggio, nel corno opposto al vescovo, fra i canonici, i diaconi, i padri provinciali, si mise a tossire secco, a sussultare, premette il muccatore sulla bocca.
Il vescovo lento avanzò nel piviale bianco, nella mitria, nel pastorale d'argento, si fermo avanti all'altare sfavillante di lampade, di miriade di ceri. Parlò gravemente.
̶  La Santa nostra Lucia ci perdoni, perdoni la nostra stoltezza e il nostro inganno. Noi non possiamo ora celebrare avanti a questo scempio, a quei brutali ignudi incombenti sull'altare, al cadavere reale della donna, a una santa priva di nimbo, a quello squarcio sanguinoso sul suo collo, ai fedeli impiccioliti, al vescovo nascosto …, non possiamo celebrare il santo sacrificio della Messa, non possiamo benedire questo quadro. L'artista capisca e si studi d'aggiustare …
Michelangelo, il cappellaccio in mano, si portò avanti al vescovo, lo fissò muto, il ghigno sulle labbra, s'inchinò, discese dal presbiterio, afferrò per il braccio Martino e, percorsa insieme al paggio la navata, sortì nella piazza vasta, nella luce del mattino.

Vincenzo Consolo, L'olivo e l'olivastro, Milano 1994.

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