lunedì 5 ottobre 2015

I gelsomini e le rose

Ferro 3 - La casa vuota di Kim Ki-Duk






















Lì fuori non infuriava la mortifera pestilenza, bensì qualcosa di molto simigliante e ahimè parimenti dannoso, sicché desiderando in letizia festeggiare Franco, il sei ottobre duemilaquindici, verso sera, le persone a lui care, in segreto cenacolo, si volle «ragunare a ragionare insieme» di poesie e passioni ed altre cose a tal segno vacue e disutili da parere, invero, affatto necessarie.

Camillo Sbarbaro nella prima poesia dei Versi a Dina, dopo il mirabile incipit La trama delle lucciole ricordi, dipana versi di limpida bellezza sul senso di perdita che incombe perfino sulle cose più preziose, la cui memoria è sempre sul punto di sbiadire nell'oblio.
E se il ricordare è rifugio precario e fragile riparo, occorre dire la causa di tale dissipazione inevitabile, senza arretrare o piegare le ginocchia o fingere vani giri d'insipiente retorica. Ma egli non si sottrae: disossa i versi usando quasi solo monosillabi e bisillabi, affinché suoni e accenti siano fusi in un ritmo inestricabile, e dà la sua risposta:
Oh come poca cosa quel che fu
da quello che non fu divide!
                                             Meno
che la scia della nave acqua da acqua.
Queste poche sillabe, come capita di frequente in Sbarbaro, pur nella vertigine di senso che dischiudono, sono pronunciate sottovoce e quasi bisbigliando nella luce radente di un sommesso occaso. Del resto, esse sfidano il non detto, creando una forma, certo appena una forma, all'indeterminatezza del male di vivere. I toni del rimpianto e il labile confine tra esistenza e assenza, tuttavia, sono gravidi di echi simbolici, molteplici e struggenti. In particolare, questi altri versi della stessa poesia accendono la ridda delle affinità e dei nessi ulteriori:
Estrema delusione degli amanti!
invano mescolarono le vite
s'anche il bene superstite, i ricordi,
son mani che non giungono a toccarsi.

Ma quelle mani che non giungono a toccarsi, sono il rimpianto di labbra assenti o di altre felicità intraviste, o quei baci che non si è osato dare, o il ricordo della compagna di viaggio, i suoi occhi il più bel paesaggio, per sempre perduta senza averle sfiorato la mano.

Sono i versi de Le passanti che per la prima volta ascoltammo storditi dalla voce di Fabrizio De Andrè. Poi scoprimmo che Faber li aveva ripresi meravigliosamente da Georges Brassens. Ma quel testo, in realtà, pur grato alla musica di Brassens, era già compiuto in sé, sia formalmente sia simbolicamente, e infatti era una poesia scritta nel 1911 da Antoine Pol, giunta fino a noi solo per un singolare e avventuroso caso.

Antoine Pol (23 agosto 1888 - 21 giugno 1971) poeta dilettante, sconosciuto più che dimenticato, era prossimo a trascorrere dall'anonimato nell'oblio, quando nel 1944 un ventenne bohémien squattrinato, Georges Brassens, per qualche spicciolo comprò da un bouquiniste, al mercato delle pulci di Porte de Vanves di Parigi, un vecchio libretto di poesie, stampato nel 1918 in 110 copie, dal titolo ingenuo e tronfio, Émotions poétiques di Antoine Pol, per l'appunto. Certo Brassens l'avrà sfogliato incuriosito e dubbioso se quel libriccino valesse i due franchi della sua cena; fortunatamente giunse a leggervi Les passantes, rimanendone folgorato, così come è accaduto poi a tanti altri, sicché decise di comprarlo, sacrificando forse la cena, ma del resto strappandolo definitivamente al vorace appetito dei topi di Parigi.

Già era un mistero ch'esso fosse sopravvissuto per più di vent'anni, abbandonato tra cantine e bancarelle, ignorato da tutti, tanto più curioso se si considera l'esigua tiratura delle 110 copie. Né il rischio del macero, né l'umidità della Senna, né l'indifferenza, tuttavia, erano bastati a cancellarlo del tutto dalla faccia della terra. Per questa via accidentata e casuale, dunque, giunsero a noi Les passantes, dopo un'ulteriore attesa di circa trent'anni invero, poiché Brassens si decise a inciderne la canzone nel 1972, mentre del 1974 è la versione di De André. Di lì in poi, il rimpianto delle occasioni mancate ha trovato nei versi de Les passantes la sua forma esemplare, fissando nella sublime contingenza di situazioni comuni, il desiderio che si accartoccia nella rinuncia della prudenza insensata o dell'indifferenza colpevole.

Il successo della poesia è chiaramente dovuto alla circostanza di essere diventata una canzone, raggiungendo così il più vasto pubblico. Ciò potrebbe autorizzare, a ben guardare, un'accigliata schifiltosità critica: in fondo, valori simbolici tanto democratici da divenir popolari, destano il lecito sospetto aristocratico ch'essi siano, se non dozzinali e volgari, almeno inclini ad un corrivo e facile bozzettismo. Che dire? Può darsi. Salvo che le immagini e le situazioni narrate dalla poesia di Pol, sembrano nondimeno accarezzate dall'ala d'una abbagliante grazia, che come il lampo montaliano «candisce / alberi e muri e li sorprende in quella / eternità d'istante» (La bufera). Ecco perché esse s'imprimono come stampi sulla cera delle comuni perdute passioni. E celles qu'on connaît à peine, qu'on ne retrouve jamais, e la compagne de voyage, dont les yeux, charmant paysage; o quelle che Vous ont, inutile folie, Laissé voir la mélancolie, o le Espérances d'un jour déçues, rivivono ad ogni ascolto nella delusa dolcezza di tutti e nella tristezza appassionata di ciascuno per le labbra assenti che non si è osato sfiorare.

Certamente, Antoine Pol resterà per sempre un poeta minore, ma in quel fatale giorno del 1911, ben ispirato dal Baudelaire del fiore del male XCIII, egli fu senz'altro visitato da una grande visione poetica che gli dettò i memorabili versi de Les passantes, i quali non cessano ancora di stupirci e commuoverci, ridestando il corrosivo dubbio in versi, anzi in versicoli, del Controcaproni, che Giorgio Caproni aveva concepito pensando proprio a Sbarbaro e a certi suoi (frettolosi) collocatori:

Dubbio a posteriori:
i veri grandi poeti
sono i «poeti minori»?

Di là dai dubbi, tuttavia, da Sbarbaro a Le passanti, si coglie un  filo che tiene nella stessa obliqua luce la nostalgia di quel che fu e il rimpianto di quel che non fu, in una comune tensione di presenza e assenza che si conferma quale luogo deputato della materia poetica, quando in essa divampa il desiderio. Nella sua incompiutezza costitutiva, infatti, il desiderio è sempre irrimediabilmente perduto, sia che si corrompa nel piacere, che realizzandolo lo tradisce, sia che resti nella crisalide d'un possibile mai divenuto.

Giunti però a questa pericolosissima soglia è necessario che le mie banali ciance cessino, in attesa che ben altri ingegni possano dirne con più competente scienza e con più alta coscienza, al cospetto di queste povere e polverose glosse, utili solamente come puerile pretesto per rileggere amati versi nel giorno di Franco, con gli amici insieme.

Salvo porre a sigillo, da ultimo, ma ben lungi da qualunque pretesa di conferma o smentita, le più potenti parole mai dette sul desiderio che dobbiamo al demone greco di Costantino Kavafis, nell'insuperabile traduzione di Filippo Maria Pontani:

Brame
Corpi belli di morti, che vecchiezza non colse:
li chiusero, con lacrime, in mausolei preziosi,
con gelsomini ai piedi e al capo rose.
Tali sono le brame che trascorsero
inadempiute, senza voluttuose
notti, senza mattini luminosi.
  
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